tag:blogger.com,1999:blog-3143955031084586302024-03-14T03:51:38.733-07:00BooksSpecialMarco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.comBlogger251125tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-18021655071064617412024-02-01T23:45:00.000-08:002024-02-01T23:45:33.009-08:00Tom Hofland<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; font-size: 19px; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg0LIRrpaMG7WyvQnN9qAAI_RowYE599uG89QNREO4pDzwE4gRVqaww4-ihAzurrTyFy16SsPuCuxlQJfIf4cwUA68H9hykS2bMGAJzANIKQ5ieOnmcnl0ZkwZXwZIdA19iW4VHb4qvv0V3DtvOgZcicnYFOgF-Dhf131KIEV2aTE8vX4R-C02bifjf19M/s2299/Tom%20Hofland.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2299" data-original-width="1500" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg0LIRrpaMG7WyvQnN9qAAI_RowYE599uG89QNREO4pDzwE4gRVqaww4-ihAzurrTyFy16SsPuCuxlQJfIf4cwUA68H9hykS2bMGAJzANIKQ5ieOnmcnl0ZkwZXwZIdA19iW4VHb4qvv0V3DtvOgZcicnYFOgF-Dhf131KIEV2aTE8vX4R-C02bifjf19M/s320/Tom%20Hofland.jpg" width="209" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">In una delle scene iniziali di un bel film di qualche anno fa, </span><span style="font-family: georgia;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">I sogni segreti di Walter Mitty, </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">il protagonista dice a Ted, tagliatore di teste incaricato di riorganizzare l’organico, un bel modo di dire per mandare tutti a casa: “Non devi per forza fare lo stronzo”. Proprio così: la situazione è già abbastanza drammatica che non è necessario aggiungerci altro ed è quello che succede con </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il cannibale</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, sorprendente terzo romanzo dell’olandese Tom Hofland (nella traduzione di Laura Pignatti). In un’azienda farmaceutica, Lute (Luut, per gli amici e la ex), il responsabile del reparto vendite e qualità è incaricato dalla direttrice in persona, Klara (attenzione ai nomi, questo era uno di quelli più in vista in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Underworld</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> di Don DeLillo) di azzerare il personale dei suoi uffici. È in corso un processo di fusione e acquisizione, e i pretendenti non fanno prigionieri. Lute è angustiato: anche se “è solo l’ambasciatore che deve svolgere l’incarico” e “non è colpa sua; lui non è altro che un intermediario”, conosce tutti e sa che sono tutelati da contratti molto solidi e precisi. Con mille dubbi, deve procedere: la procedura dei licenziamenti e/o delle dimissioni più o meno volontarie deve essere svolta in fretta, con urgenza e con precisione chirurgica, ma sa nemmeno da che parte cominciare. Gli affari sono affari, questo è il refrain, e il sistema c’è, ed è “un sistema che si sostiene e si alimenta da sé. Un sistema che sembra l’unica verità. Quel sistema è costituito da idee che vengono viste come fatti reali. Il sistema deve essere percepito come un fatto; come un solido insieme di regole alle quali tutti si attengono, per via della tradizione, della cosiddetta natura, per qualsiasi motivo”. Per puro caso, incontra prima Reiner e poi Lombard, due specialisti in gestione delle risorse umane. Sono un po’ eccentrici, ma si rivelano preparati, efficienti e, soprattutto, veloci. Lute è sollevato quando Lombard dice: “C’è un mondo personale nel quale siamo carini e gentili, e c’è un mondo professionale nel quale prendiamo le decisioni giuste”. Et voilà: i consulenti procedono senza esitazioni e l’eccesso di zelo, viste le contingenze, va messo in conto, ma è come se Lute avesse evocato forze che non riesce più a controllare, la cui potenza esula dalla razionalità e dall’organizzazione del lavoro. Lombard e Reiner (e il loro cane tutto nero) hanno qualcosa di demoniaco e interpretano a modo loro l’odioso incarico. Qui non è concesso svelare di più, tocca al lettore aprire una porta laterale e avventurarsi in quegli anfratti che </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il cannibale</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> annovera nell’asettica architettura aziendale. È lì (sotto) che viene svolto lavoro sporco e l’elemento sovrannaturale</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">imprime alla storia di Lute, Klara, Mea ed Essel e tutti gli altri un ritmo ipnotico, ma che ripercorre alla perfezione le logiche e i luoghi comuni, spesso inappellabili, che conducono a soluzioni brutali. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il cannibale</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, con tutte le sue deviazioni, caratterizza benissimo l’atmosfera che si vive in quei momenti: la svolta avviene nella brughiera in una dimensione parallela che mette in risalto l’attitudine visionaria di Tom Hofland, prologo ed epilogo compresi. Cambia registro con disinvoltura, riesce a convincere anche nei passaggi più assurdi e, con una scrittura asciutta e martellante, priva di retorica o moralismo, ma non di una punta di sarcasmo, ci mostra la realtà così com’è. Sì, mischia le carte in tavola, ma con non poco coraggio richiama la peste del 1349 associandola al dramma di France Télécom, quando venne avviato un piano di riorganizzazione in vista della privatizzazione che prevedeva di ridurre il personale di un quinto, circa ventimila persone. Nel 2007 il presidente, amministratore e plenipotenziario disse che sarebbe riuscito nell’obiettivo facendo passare gli esuberi “dalla porta o dalla finestra” e il clima che seguì portò a un’ondata di suicidi (oltre trenta persone). Niente di personale, ça va sans dire, ma guarda caso si chiamava Lombard, non era un romanzo e non era nemmeno un film.</span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-89289607496606451262024-01-31T03:23:00.000-08:002024-01-31T03:24:07.719-08:00John Berger<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgmGjM7DE3I4BWQjANIvdRSwc4J3AqUuOyTYXn7g3yzGRo2Zr_qB05TIDiwMUm0nnEmxP2gjrHhy0GMZWMmTP299pE1yegF1Lb1jijlH9s0NlsHoCA4tFYfqppd2LqxuWKXZNa0VktExe1CZd0Uc79NJRRoBx9qOR39KVAPFy-3y7SJaLmK2blqSiNM4Iw/s1483/John%20Berger.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1483" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgmGjM7DE3I4BWQjANIvdRSwc4J3AqUuOyTYXn7g3yzGRo2Zr_qB05TIDiwMUm0nnEmxP2gjrHhy0GMZWMmTP299pE1yegF1Lb1jijlH9s0NlsHoCA4tFYfqppd2LqxuWKXZNa0VktExe1CZd0Uc79NJRRoBx9qOR39KVAPFy-3y7SJaLmK2blqSiNM4Iw/s320/John%20Berger.jpg" width="216" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Il ritratto di John Sassall, medico condotto in the middle of nowhere, è, comprese le fotografie di Jean Mohr, uno sguardo ravvicinato al corso della vita in un ambiente bucolico e impenetrabile, racchiuso su se stesso e, in qualche modo, autosufficiente, che John Berger celebra e definisce già nell’incipit di </span><span style="font-family: georgia;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Un uomo fortunato</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">: “I paesaggi possono essere ingannevoli. A volte si direbbe che un paesaggio non sia tanto lo scenario della vita dei suoi abitanti quanto un sipario dietro il quale hanno luogo le loro lotte, le loro conquiste e le loro disgrazie”. A St Briavels nel Gloucestershire, non lontano da Bristol, nella profonda campagna inglese i residenti sono un riflesso del territorio e sono “duri, rassegnati, modesti, stoici”. I luoghi, non meno delle esigenze quotidiane comportano che “il concetto di resistenza è fondamentalmente assai più importante della felicità”. Nella piccola comunità ci si accontenta di poco: un lavoro modesto, una serata al pub, quel minimo per cui “qualunque cultura generale opera come uno specchio che consente all’individuo di riconoscersi, o perlomeno di riconoscere quelle parti di sé che sono socialmente ammissibili”. In questo ristretto habitat, John Sassall svolge il suo compito seguendo “l’ideale del servizio” ed è nella complessità del rapporto con il paziente (e malattia, e morte) che John Berger approfondisce con lunghe ed elaborate digressioni tutto un ordinamento di riflessioni sulla sua personalità e sulla sua missione, compresi i contrasti, le distanze, le differenze con i “boscaioli”. Pur nella condizione provinciale e circoscritta, John Sassall “è riconosciuto come un buon medico perché risponde alle aspettative profonde, ma non formulate, del malato di un senso di fraternità”. Non dispensa soltanto diagnosi e medicinali, punti di sutura o sciroppi: cerca di capire chi è arrivato nel suo ordinatissimo ambulatorio, cosa l’ha portato lì. È “meticoloso”, “gentile”, “comprensivo” e sembra sapere che “la consapevolezza della malattia è parte del prezzo che l’uomo ha pagato per primo e continua a pagare per la sua coscienza di sé”. Il suo afflato ricorda l’uomo di medicina primitivo che, come puntualizza John Berger, “era spesso anche sacerdote, stregone e giudice”. È protagonista di una profonda dicotomia perché se “il suo senso di padronanza è alimentato dall’ideale di perseguire l’</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">universale</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">”, rimane avvolto da una coltre di insoddisfazione e da un senso di inadeguatezza che l’esercizio della professione, per quanto svolto con ammirevole solerzia, non riesce a risolvere. Scriveva nei suoi appunti: “La tragedia fondamentale della situazione umana è non sapere. Non sapere che cosa siamo o perché siamo, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">con certezza</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">”. Il dilemma, che pare coinvolgere anche le gradazioni di bianco e nero nelle inquadrature di Jean Mohr, si articola in tutta la “storia di un medico di campagna” che John Berger riassume così: “Sassall è nondimeno un uomo che fa ciò che vuole. O, per essere più precisi, un uomo che persegue ciò che desidera perseguire. A volte la sua ricerca comporta tensione e sconforto, ma di per sé è la sua unica fonte di soddisfazione. Come un artista o come chiunque altro creda che il proprio lavoro giustifichi la propria vita, Sassall, secondo i miserabili standard della nostra società, è un uomo fortunato”. La valutazione è ambivalente nelle implicazioni dirette e indirette perché nelle sue condizioni “può sembrare che controlli il tempo, come, in certe occasioni, il navigatore sembra governare il mare. Ma tanto il medico quanto l’uomo di mare sanno che si tratta di un’illusione”. Questo è il groviglio strutturale di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Un uomo fortunato</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> e la crisi strisciante, umana molto umana, di John Sassall avrà un risvolto tragico a cui John Berger riserva una brevissima nota, con discrezione, come se non volesse disturbare.</span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-11167889356916510942024-01-09T00:52:00.000-08:002024-01-09T00:52:37.097-08:00Ryszard Kapuściński<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjt8CZM7d5WLQotnoXhu0yy5QTzR3ca-nZNZ7R1Q02VBpA14oIblpc6RI5E1MT2zCDZJxtgLp6PuqXIJGY69sQwzYZvtFbCoHXofTcAAEF0ZZyQOH5qCVrt0R6v46GAxZcOGPYn_1iqEOb04GR5cnL47twSfD9fBObqAP4j0gfoKdKJ3Xkae_Jemzg6hSw/s5205/Ryszard%20Kapus%CC%81cin%CC%81ski.jpeg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="5205" data-original-width="3264" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjt8CZM7d5WLQotnoXhu0yy5QTzR3ca-nZNZ7R1Q02VBpA14oIblpc6RI5E1MT2zCDZJxtgLp6PuqXIJGY69sQwzYZvtFbCoHXofTcAAEF0ZZyQOH5qCVrt0R6v46GAxZcOGPYn_1iqEOb04GR5cnL47twSfD9fBObqAP4j0gfoKdKJ3Xkae_Jemzg6hSw/s320/Ryszard%20Kapus%CC%81cin%CC%81ski.jpeg" width="201" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Kapuściński <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">in viaggio tra i frammenti della storia</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> sviluppa uno dei suoi libri più personali, un diario che documenta un periodo dal 1995 al 1989, anche se la cronologia non è ordinata secondo uno schema preciso e segue una trama molto particolare. Sono anni ricchi di trasformazioni e Kapuściński ammette che “è difficile scrivere in un mondo di cambiamenti tanto drastici e radicali. Tutto ti scivola da sotto i piedi, mutano i simboli, i segni si spostano, i punti di orientamento non hanno più un luogo fisso. Lo sguardo di chi scrive erra in paesaggi sempre nuovi e sconosciuti mentre la sua voce si perde nel rombo della precipitosa valanga della storia”. Annotazione dopo annotazione, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Lapidarium</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> diventa un tentativo di riportare il centro di gravità attorno al mestiere di scrivere che Kapuściński ha esercitato con uno stile inimitabile e una coerenza encomiabile che pervadono fino in fondo ogni passaggio. Il primo, che filtra fin dalle pagine iniziali di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Lapidarium</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, riguarda proprio quella che chiama “la fatica maggiore: non lasciarsi invischiare nella quotidianità, non lasciarsi frastornare da chiacchiere e ciarpame. Soffocare in noi l’inutile curiosità per le cose marginali, sterili, di nessun conto. La curiosità deve essere selettiva, in funzione esclusiva della scrittura”. Gli argomenti e i luoghi sono tra i più disparati e Kapuściński racconta Berlino e Mosca, Dalí e Borges, il Ruanda e l’Iran, libri e film esercitando una cernita essenziale: “Occorre operare una scelta e decidere che cosa sia veramente importante e che cosa no. Bisogna scrivere il meno possibile, scegliere con cura, escludere, tagliare, ridurre, cestinare, conservare un’osservazione su cento. Non esistono regole per questo procedimento: gli unici criteri validi sono l’intuizione e la conoscenza”. Bisogna aggiungerne un terzo che è la necessità di “immedesimazione” che Kapuściński definisce così: “Ho bisogno di illudermi, sia pur fuggevolmente, che il mondo dove mi trovo in questo momento sia l’unico esistente. Mi capita anche di spingermi più in là dell’illusione: certe volte ho creduto che il mondo dove mi trovavo per me fosse ormai l’ultimo, e che da lì sarei andato direttamente in cielo”. La metodologia che si va scoprendo nelle pagine di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Lapidarium</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> non lascia spazio a dubbi di sorta. Kapuściński parte dalla lettura, nello specifico dalla poesia (“Ho bisogno della poesia come esercizio linguistico: non posso rinunciarvi. La poesia richiede una profonda concentrazione sulla lingua, il che traduce poi in una buona prosa. La prosa deve possedere una sua musica, e la poesia è ritmo. Ogni volta che comincio a scrivere, devo anzitutto trovare il ritmo giusto, che mi trasporterà come un fiume. Se non riesco a sentire il valore ritmico di una frase, la abbandono. Prima devo trovare il suo ritmo interno la frase, poi il frammento di testo, infine l’intero capitolo”) e dalla prosa (“La prosa è una forma di letteratura talmente trasparente che il lettore scopre subito i punti deboli, quelli dove l’autore si sente insicuro e non riesce a organizzare il materiale. La semplicità crea trasparenza: per questo è tanto difficile scrivere in modo semplice. Proibito usare trucchi, proibito imbrogliare”) per arrivare ad aprire la sua cassetta degli attrezzi e spiegare come prende forma la sua voce. Nella generosa panoplia di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Lapidarium</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, spicca l’intenzione principale che spiega molto, se non tutto, del lavoro di Kapuściński, quando dice: “Scrivendo un libro, o raccogliendo il materiale per scriverlo, mi concentro soprattutto su quel che dice la gente. Di solito incontro i miei personaggi in modo del tutto casuale, ma sono sempre le loro affermazioni, il loro mondo, il loro modo di vedere che contano, non i miei. Io cerco di restare nell’ombra. Si tratta dei loro pensieri, delle loro visioni, delle loro riflessioni”. Dall’altra parte, perché non sia uno sforzo fine a se stesso, e tornando ancora alla lettura, si premura di ricordare che “scrivere fa parte del mondo della comunicazione. Il libro è un comunicato. Il processo di comunicazione si sposta secondo un moto lineare tra mittente e destinatario, che sono i due capi dello stesso filo. Se un libro di alto livello non trova un lettore di alto livello, resta sospeso per aria, manca l’obiettivo. Ricettività, attivismo, sforzo creativo devono risiedere in entrambi i capi di questo ponte”. Il collegamento dipende solo dal viaggio e lì Kapuściński confessa: “Di ogni strada mi piace pensare che si tratti una strada senza fine, che corre intorno al mondo”. Un passo alla volta, è la sua storia.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-15056037387627058862023-12-12T03:19:00.000-08:002023-12-12T03:19:21.138-08:00J. G. Ballard<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj4M6dC2xtzk6ZO3eqOYtPMDC2iqRd-b7ETsjiuOjeEJoeMKvePlp5jSIyjK4AVzzyLhlk3zBPB_4lQ-bBeWXv9kYFaI-Tm-Lo_2NqLeIlQgorXpKkG5v7b6QxbEKwQ5fPvRa4Y_RdtGbKFwaZMoDxnfcZ-2DOvJaGVW0fANcamFmSo0kN1Pvbf-zY-PaU/s1492/J.%20G.%20Ballard.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1492" data-original-width="957" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj4M6dC2xtzk6ZO3eqOYtPMDC2iqRd-b7ETsjiuOjeEJoeMKvePlp5jSIyjK4AVzzyLhlk3zBPB_4lQ-bBeWXv9kYFaI-Tm-Lo_2NqLeIlQgorXpKkG5v7b6QxbEKwQ5fPvRa4Y_RdtGbKFwaZMoDxnfcZ-2DOvJaGVW0fANcamFmSo0kN1Pvbf-zY-PaU/s320/J.%20G.%20Ballard.jpg" width="205" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Siamo del 2030 (non manca molto) e l’America è stata evacuata un secolo prima in seguito alla crisi climatica ed energetica che l’ha travolta. Una missione partita dall’Europa su un veliero, l’<i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Apollo</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, per verificare le condizioni del continente è attirata dal luccichio sulla East Coast. Quando sbarcano, l’oro visto sulla costa si rivela un miraggio di sabbia e ruggine, e, a una prima ricognizione, “non ci sono indigeni, né traccia di radioattività nel raggio di cento miglia” e il rischio “più grande è di sbattere contro un’auto parcheggiata”. La statua della libertà è affondata. New York è travolta da un’arida distesa di nulla. Anche se non hanno ancora trovato conferma, almeno nelle dimensioni apocalittiche di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Hello America</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, le previsioni di Ballard restano come campanelli d’allarme che qualcosa non sia andato per il verso giusto, a partire dall’ipotesi della desertificazione. Per l’equipaggio dell’</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Apollo</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, come per i pellegrini del </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Mayflower</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> a suo tempo non resta che il “movimento, ecco cos’era l’America, che esprimeva, la sua fiducia in se stessa”, e siamo soltanto all’inizio. È un viaggio verso l’interno, come redivivi pionieri lungo file interminabili di rottami (frutto del collasso di una società basata sulle auto e sul traffico) e incontrando frazioni di un popolo semianalfabeta che ha preso il nome di prodotti e di insegne. Tutto intorno sono rimasti cactus, yucca, artemisia e dune che si perdono oltre l’orizzonte. Da bere è rimasto soltanto l’alcol abbandonato nei centri commerciali e l’idea degli Stati Uniti in polvere e delle istituzioni svuotate va inquadrata nel periodo dell’apparizione di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Hello America</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, nel 1981, all’apogeo della guerra fredda quando i progetti di vettori nucleari sempre più distruttivi partirono per la tangente come succede un po’ a tutti in questo romanzo. Tra missili Titan e Cruise, elicotteri senza pilota (che anticipavano gli attuali droni), alianti di cristallo e macchine a vapore in uno scenario in costante mutazione, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Hello America</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è abbastanza caotico, con una sequenza finale degna di un film d’azione di terza categoria. Detto questo, Ballard allinea una lunghissima teoria di miti che vanno a comporre un quadro fluttuante e irriverente di “un’America impazzita”. L’equipaggio dell’</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Apollo</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> si divide, si scontra (il capitano, Steiner, sparisce), subisce perdite, ma decide di arrivare a Washington e da lì in un susseguirsi di incontri, cominciano a pensare che “determinate cose andavano fatte, riti di passaggio in preparazione della loro effettiva partenza”. L’imperativo è guadagnare terreno, e tutti concordando, chiedendosi: “Sì, ma verso dove?”. La domanda è pleonastica, la direzione è ancora a ovest dove, al contrario, è tutto una giungla ed è soltanto una prima, palese contraddizione. Il trambusto cresce per gradi, riserva una sorpresa dopo l’altra e le varie compagnie di sbandati, altrettanti cliché sociali irrisi da Ballard, si presentano in forme picaresche. Arrivata a Las Vegas, la composita spedizione scopre che l’autoproclamato presidente degli Stati Uniti è Charles Manson e sta giocando con una roulette nucleare che segnerà i destini delle città americane. Tra proiezioni, ologrammi e robot con le sembianze di Frank Sinatra, Dean Martin, Judy Garland, Bing Crosby e dei precedenti presidenti, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Hello America</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> si via via ingarbugliando, anche se alcune immagini risaltano, nel delirio generale, più di altre. Nella parodia complessiva, un po’ fumetto, un po’ serie di sogni (come direbbe Bob Dylan, citato fin dall’inizio), la metafora viene svelata quando Ballard scrive che “servono gli orpelli del potere inerenti al potere stesso per legittimarlo” e non c’è dubbio che </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Hello America</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> nella sua folle lucidità sappia cogliere il valore ultimo delle immagini, a partire (e per concludere) con John Wayne che “a noi può parere una barzelletta, invece è il cuore di tutto quanto”, ed è davvero così. Ma più di tutto dovrebbe far riflettere il fatto che l’altro Wayne, il protagonista di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Hello America</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, è un clandestino che nella terra della libertà e nella patria dei coraggiosi si ritrova in mezzo a una specie di guerra civile con l’ennesimo dottor Stranamore pronto con il dito sul bottone.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-86124908097644081622023-12-05T23:21:00.000-08:002023-12-05T23:22:24.630-08:00Gustave Flaubert<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgC0IJYX9lWp9syn0MSMqVCnGIb28lzQfpaP8dlNEFQWV7Zym8v9RmoZW3EF3Nq2c_c23FIR8eDOhUqxp7yq1HOTZ7bLyikahn60jV1v7fLEhHbt0GLa86JVdxXTKz2t9NWsw6XaVkHO8-SdL0G_Fx2ovq702HXmqbNWQ5oWa90v9U6Km6LWwswJenzCm4/s2299/Gustave%20Flaubert.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="2299" data-original-width="1500" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgC0IJYX9lWp9syn0MSMqVCnGIb28lzQfpaP8dlNEFQWV7Zym8v9RmoZW3EF3Nq2c_c23FIR8eDOhUqxp7yq1HOTZ7bLyikahn60jV1v7fLEhHbt0GLa86JVdxXTKz2t9NWsw6XaVkHO8-SdL0G_Fx2ovq702HXmqbNWQ5oWa90v9U6Km6LWwswJenzCm4/s320/Gustave%20Flaubert.jpg" width="209" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">In <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Io sono Charlotte Simmons </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Tom Wolfe descrive così l’impressione della sua tormentata protagonista nel corso di una delle sue prime lezioni universitarie: “Gustave Flaubert era uno scrittore molto diretto e lineare, ma usava un sacco di frasi elaborate, espressioni colloquiali e citava una serie di oggetti che lei doveva cercare sul dizionario, dato che Flaubert dava molta importanza ai dettagli”. Poco più avanti, il suo docente di letteratura francese, il professor Lewin precisa: “Flaubert, più che spiegare un punto chiave, voleva farlo </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">vedere</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">. E per mostrarlo aveva bisogno di un </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">punto di vista</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">”. È una circostanza che va tenuta ben presente quando si affronta </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">La tentazione di Antonio</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> (nella traduzione e con l’esaustiva introduzione di Bruno Nacci) che ripercorre, secondo la particolarissima interpretazione di Flaubert, il romitaggio di sant’Antonio. Nelle pieghe del deserto della Tebaide, l’anacoreta passa in rassegna tutte le divinità, si confronta con miti ed eremiti, con la materia e il sogno, l’immaginazione e la fede, e si ritrova in allucinazioni dove i peccati capitali, gola e lussuria prima di tutti prendono forma. Le descrizioni sono abbondanti e spumeggianti: “I vini ruscellano, i pesci palpitano, il sangue ribolle nei piatti, la polpa dei frutti si protende come labbra innamorate; e la tavola sale fino al suo petto, fino al mento, portando un solo piatto e un solo pane, proprio davanti alla sua faccia”. Alle libagioni patrizie, si contrappone il destino atroce della persecuzione dei martiri cristiani. Il contrasto è possente e Flaubert non manca di farlo notare: “Ma in breve è sazio di eccessi e stermini; lo prende la voglia di rotolarsi nell’abiezione. D’altra parte, il degrado di ciò che spaventa gli uomini è un oltraggio fatto al loro spirito, un modo diverso di stupirli; e poiché non c’è niente di più vile di una bestia bruta, Antonio si mette a quattro zampe sulla tavola e muggisce come un toro”. L’eccesso linguistico è all’ordine del giorno e il pellegrinaggio di Antonio è una colossale panoramica mitologica e cosmologica che si snoda come una tempesta sulle rive del Mar Rosso. Secondo Ilarione, già suo discepolo e il più loquace tra le apparizioni, “forse non è così difficile. Le esortazioni degli amici, il piacere d’insultare il popolo, il giuramento fatto, una certa vertigine, soccorrono mille circostanze”, ma per il santo le lusinghe sono una tortura e il conflitto si propaga in tutte le direzioni. Ilarione è assillante nello spingerlo ai limiti (“Ma fuori dal dogma, ci è permessa una completa libertà di ricerca”) e Antonio si rivela un viandante che caracolla nello spazio e nel tempo (ci vuole il raffinato glossario in appendice per districarsi nelle sue visioni) finché Flaubert non gli fa chiedere: “Cos’è un miracolo? Un avvenimento che ci appare fuori dalla natura. Ma forse che noi conosciamo tutta la sua potenza? E dal fatto che normalmente una cosa non ci stupisce, ne segue che la capiamo?”, e il dilemma diventa l’occasione per sfoggiare un florilegio erudito capace di collassare le culture classiche, greca e latina, in un’acrobazia teologica senza fine. L’accavallarsi di estasi e dispute (che spesso coincidono) è mostrato da Flaubert proprio attraverso la prospettiva di Antonio (ecco, il “punto di vista” di cui parlava Tom Wolfe) che, nella sua santità, ha l’enorme pregio di restare umano in mezzo a tanto travaglio divino e demoniaco. Dice, tra l’altro: “Il mio pensiero si dibatte per uscire dalla sua prigione. Mi sembra che mettendo insieme le mie forze ci riuscirò. A volte, nello spazio di un lampo, mi trovo come sospeso; poi torno a cadere”. La raffigurazione fluttua irriverente e cangiante ben sapendo che “quando il cuore è puro l’apostasia è permessa” e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">La tentazione di sant’Antonio</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> ammette che l’insidia più grande non arriva dall’alto dei cieli o dal profondo degli inferi, ma da un angolo remoto del nostro essere.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-30201256599850497462023-12-04T03:40:00.000-08:002023-12-04T03:41:59.753-08:00Mia Couto<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh3jz26jj0TpfMcRWa-cpOxEm44Uvr5V7ElUiINF98uIJAsxZDX5RWTuOGXsaYIULcW1UGiV5AwjSpuWnVP0o7BN26uol1IzJgIYWAslkGfDsW4z42dmXLNoNg5xvIUmVJG8R8pjX7zvdR_wpoQ9x3qKw5R-1bB8N8nKxc_MbNnFClWDeuZq6mz7YwSgJk/s465/Mia%20Couto.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="465" data-original-width="297" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh3jz26jj0TpfMcRWa-cpOxEm44Uvr5V7ElUiINF98uIJAsxZDX5RWTuOGXsaYIULcW1UGiV5AwjSpuWnVP0o7BN26uol1IzJgIYWAslkGfDsW4z42dmXLNoNg5xvIUmVJG8R8pjX7zvdR_wpoQ9x3qKw5R-1bB8N8nKxc_MbNnFClWDeuZq6mz7YwSgJk/s320/Mia%20Couto.jpg" width="204" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Serpenti, uccelli, uomini e donne in cerca di un amore che non c’è, alberi, fiumi e intersezioni tra esseri senzienti e il resto della natura, una principessa russe e Sidney Poitier: nelle <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Voci all’imbrunire </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">di Mia Couto si sommano simbologie e mitologie, la dimensione del sogno e della stregoneria, i bianchi e i neri, l’imperialismo e le ribellioni, le invocazioni e le carestie, il Mozambico e l’Africa intera. I contrasti sono ridotti in una scrittura volitiva, che riesce a contenere le vestigia coloniali e animiste, le “mura” urbane e la vita nelle lande rurali e desertiche, addensandole in storie che partono “da qualche cosa accaduta nella realtà”, ma come “se fosse successa all’altro capo del mondo”. I racconti hanno svolte e risvolti sorprendenti a partire da </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Il giorno in cui esplose Mabata-Bata</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">, che comincia con un bue che si disintegra nell’aria. Il giovane pastore Azarias destinato dal protervo zio Raul a custodirlo rimane senza parole: “Fissò la disgrazia: il bue polverizzato, eco di silenzio, ombra di nulla”. In quel momento Azarias pensa a un fulmine o a un intervento divino, per poi scoprire che il povero animale è saltato su una mina. Le condizioni del Mozambico si evidenziano nei racconti di Mia Couto dove la realtà della guerra si somma alla magia e alla durezza della vita quotidiana: “Ciò che più duole, nella miseria, è l’ignoranza che essa ha di se stessa. Messi di fronte all’assenza di tutto, gli uomini si astengono dal sogno disarmandosi del desiderio di essere altri. Esiste nel nulla un’illusione di pienezza che fa fermare la vita e imbrunisce le voci”. C’è un continuo andirivieni nei dilemmi dei personaggi di Mia Couto perché “il dolore è polvere che ci annebbia la luce” e la rivoluzione non riesce nemmeno a prendersi cura dei sopravvissuti come si può vedere in </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">La storia dei comparsi</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">, dove la burocrazia e la corruzione trasformano le persone in creature invisibili. Le reazioni sono tra le più disparate. Per esempio, il personaggio principale di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Le balene del Quissico</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">, “unico abitante della tempesta, Bento João Mussavele si addentrava nel mare, si addentrava nel sogno”, prova ad accontentarsi e “se ne stava lì a sedere e basta. Nient’altro. Proprio così, sedutissimo. Il tempo non se la prendeva con lui. Lasciava fare”. Il protagonista di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Alla fin fine, Carlota Gentina</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> invece recita nell’incipit: “Io siamo tristi. Non sto sbagliando, dico bene. O forse: noi sono triste? Perché dentro di me non sono solo. Sono molti. E tutti questi si contendono la mia unica vita. Avremo le nostre morti. Ma il parto fu uno solo. Eccolo, il problema. Per questo quando racconto la mia storia mescolo, mulatto non di razze ma di esistenze”. Potrebbe essere l’identità dello stesso Mia Couto che altrove confessa: “Ho bisogno di essere un altro per essere me stesso”, e riesce a raccontare il dolore dell’illusione con </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">La bambina dal futuro contorto</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">, un racconto straziante, con il padre che, di fatto, tortura la figlia nella speranza di trasformarla in contorsionista, mentre “il tempo si riempie di nulla” e ogni sforzo è legato a una notizia che vaga nell’aria: “Ma in una terra così piccola è avvenimento soltanto ciò che viene da fuori. La cosa di cui si parla non è mai un fatto locale. Viene sempre da fuori, scuote le anime, incendia il tempo e poi si ritira. Se ne va così in fretta da non lasciare neppure braci con cui gli indigeni possano riaccendere quel fuoco, neanche se lo vogliono. Il mondo ha dei posti in cui la sua millenaria rotazione si ferma e riposa. Quello era uno di quei posti”. Lo sa anche </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Patanhoca, il serpentaio appassionato</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> quando dice che racconterà come a prendere forma non sia “proprio la storia”, ma “pezzetti di storia. Pezzetti sbrecciati come le nostre vite. Riuniamo i frammenti, ma il mosaico non è mai completo”. E nelle </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Voci all’imbrunire</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> si ritrova anche Mia Couto quando ammette che “nel tessuto della vita intreccio la lotta in cui divengo” e nel percorso si fa affascinante e coinvolgente.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-49818815071038109792023-11-21T06:33:00.000-08:002023-11-21T06:33:42.777-08:00Jarvis Cocker<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh4ELEehjxnRoXBrSAkjE0e8C1R_Rd-s7nDPj3fhwHN4rqKBxPmZZG0blfuDPbbZ6ovj9xvstbpe67JNNrui5k5UpTQFvT6NuHoLltC3Mf9JUWRic2nDR0godfgBTHolIFfKn-32BpJmM_RUCJbH8EYn7MmYABSOItmiWVVfVi8-QtuUA9woTV3G-bfOBc/s396/Jarvis%20Cocker.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="396" data-original-width="277" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh4ELEehjxnRoXBrSAkjE0e8C1R_Rd-s7nDPj3fhwHN4rqKBxPmZZG0blfuDPbbZ6ovj9xvstbpe67JNNrui5k5UpTQFvT6NuHoLltC3Mf9JUWRic2nDR0godfgBTHolIFfKn-32BpJmM_RUCJbH8EYn7MmYABSOItmiWVVfVi8-QtuUA9woTV3G-bfOBc/s320/Jarvis%20Cocker.jpg" width="224" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Quando Jarvis Cocker, già deus ex machina dei Pulp, svuota la soffitta avvia un “percorso di scavo interiore” che è, sì, uno slalom tra le masserizie e gli ammennicoli, ma soprattutto un “inventario” pop leggero & brillante nello stesso tempo. L’elenco di questa bizzarra archeologia personale comprende un po’ di tutto, dalle istantanee in vacanza a Ibiza ai <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Thunderbirds</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, dalla prima chitarra ai nastri di John Peel, da </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">2001: Odissea </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">nello spazio ai dischi di Elvis Costello, Echo & The Bunnymen, Stranglers e Slits è un continuo rimbalzare di “ossessioni/ispirazioni”, prima tra le quali, rimane la musica. Per Jarvis Cocker, come per tutti alla sua età, sarà determinante il punk perché “era una rottura. Uno strappo netto con il passato. Un rifiuto della narrativa ufficiale. Non voleva adeguarsi. Esigeva un nuovo sound, nuove idee. & nuovi vestiti”. Apriva anche inedite possibilità all’adolescente di Sheffield nell’era della Thatcher, il convitato di pietra di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Good Pop Bad Pop</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">. La riduzione del linguaggio operato dalla propaganda politica attingeva senza alcun pudore proprio dalla spontaneità e dalla semplicità del pop che secondo Jarvis Cocker “era emancipazione. Era accessibile a tutti: bastava accendere la radio o la televisione o aprire una rivista. Il pop è stato creato per soddisfare i nostri desideri primordiali”. Dal ripostiglio di Jarvis Cocker appare anche uno strano apparecchio televisivo a gettoni che forse non si trova più nemmeno nei musei, ma che per il futuro leader dei Pulp ha rappresentato la chiave d’accesso a un vasto catalogo di possibilità: “Le classifiche pop britanniche erano una folle collisione di affari rampanti & democrazia popolare: la gente </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">votava</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> comprando i dischi & poi seguendo la loro ascesa in classifica. Era un passatempo nazionale. Addirittura ricordo certi ragazzi che portavano a scuola la radio per ascoltare le classifiche di metà settimana durante le pause. Quella sì che è dedizione. Erano popolari & commerciali, ma soprattutto, il che era decisivo, potevano partecipare tutti. Potevano accadere cose strane”. Attraverso quel piccolo tubo catodico, diventato via più grande, Jarvis Cocker riesce a individuare “la magia del pop” che poi è la “la sua imprevedibilità. Una hit doveva avere quel misterioso non so che capace di catturare l’immaginario popolare”. Il rapporto con il mezzo televisivo, in particolare, sarà ambivalente perché se può apparire che “cantare in playback è più reale” è anche vero che “la televisione non mostra il quadro completo”. Lì </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Good Pop Bad Pop </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">compie un po’ una svolta e la cernita di Jarvis Cocker alza il tiro quando dice: “La vita è casuale, sì, ma quanto ci piacciono le storie. Vogliamo disperatamente che tutto abbia un senso. Quindi incastriamo le cose in modo tale che sembrino fare proprio questo. Così che possano raccontarci una storia. È come vedere volti nelle nuvole o i contorni di figure mitiche nel cielo di notte. Li vediamo perché vogliamo vederli. Proiettiamo un senso, una forma o un significato su ciò che ci circonda perché ci fa sentire meglio”. Alla fine, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Good Pop Bad Pop</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è “un libro sul processo creativo” che si legge con disinvoltura a partire dal fatto che “una canzone è un’avventura che vivi dall’interno” per proseguire nell’incontro con Leonard Cohen, con il cinema di Fellini per arrivare ai Velvet Underground e, come è giusto che sia da lì, ad Andy Warhol che “aveva cambiato il modo delle persone di vedere la realtà quotidiana tutt’intorno. & dopo averlo fatto, il mondo intero si è accodato”. È molto probabile che sia stato lui, se non altro a livello subliminale, l’ispiratore dell’idea che “una cultura potesse rivelare di più su di sé attraverso i propri scarti anziché gli illustri (o presunti tali) artefatti”. È proprio con quell’afflato che Jarvis Cocker tende a raccontare “tutta la vita umana in forma pop” riuscendo a restare in equilibrio tra i rimasugli del passato e la propensione verso il futuro, ancora da scrivere.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-10941203041121877242023-10-10T07:22:00.009-07:002023-10-11T06:59:33.682-07:00Barbara Stiegler<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgAWacf5yy8Cph8UVZvlwpsj4d6KKS7xZtchbkHiH3ZbmdWuuwnAPUcLLOm87lTJxSynuw58qpF4vYIJ1nfqnOIi4Q48hbvpIbucT8gxpq9qfLntseV6aQRnCnMeSOwSsmJSV_Afc2s78EMmdwqkthyphenhypheng4_Ha1L8BUaElSfu670Nt0OYjTYybYhQMu3EOM4/s653/Barbara%20Stiegler.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="653" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgAWacf5yy8Cph8UVZvlwpsj4d6KKS7xZtchbkHiH3ZbmdWuuwnAPUcLLOm87lTJxSynuw58qpF4vYIJ1nfqnOIi4Q48hbvpIbucT8gxpq9qfLntseV6aQRnCnMeSOwSsmJSV_Afc2s78EMmdwqkthyphenhypheng4_Ha1L8BUaElSfu670Nt0OYjTYybYhQMu3EOM4/s320/Barbara%20Stiegler.jpg" width="208" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">All’origine del “nuovo imperativo politico” di Barbara Stiegler c’è la disputa tra Walter Lippmann, che ha scritto <i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">L’opinione pubblica</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"> (fondamentale) e il filosofo John Dewey che mette a confronto nelle sue parti essenziali “una democrazia rappresentativa, governata dall’alto dagli esperti” (Lippmann) e “una democrazia partecipativa, favorevole al continuo coinvolgimento dei cittadini nella sperimentazione collettiva” (Dewey). Il contrasto ha influenzato in pratica tutto il ventesimo secolo americano ed è al centro dell’analisi di Barbara Stiegler (tradotta, introdotta e annotata da Beatrice Magni). Lippmann aveva capito già a suo tempo che “un’intensificazione dei processi democratici di ricerca e di sperimentazione collettiva” non è più ineludibile. Sul fronte opposto, Dewey sosteneva che “un piccolo frammento impersonale, ostinato, automatico e cieco della macchina molecolare è la fonte ultima di ogni azione, quindi di significato e quindi di coscienza dell’universo”. Stessa linea di partenza, ma una distinzione netta ed è così che la dicotomia diventa il sale della scrupolosa dissertazione di Barbara Stiegler: tra </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">impulse</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"> (impulso) e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">habit</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">, (abitudini), tra economia pianificata e libero mercato, individualità e intelligenza collettiva, nei passaggi di “flusso e stasi”, “gradualismo e eterocronia”, passivo e attivo. È un attrito continuo che secondo Barbara Stiegler mette in risalto “la generalizzazione di un modo di strutturare le organizzazioni sociali, in cui si tratta ogni volta di ripristinare, in ogni situazione locale specifica, la gerarchia tra coloro che dirigono l’esperimento e coloro che ne sono il bersaglio passivo e compiacente”. L’elaborazione richiede di districarsi tra Adam Smith e Henri Bergson, nonché di riconoscere l’influenza di Darwin e dei principi evolutivi rispetto alla politica in cui “la continuità della vita significa il continuo riadattamento dell’ambiente ai bisogni degli organismi viventi”. È naturale che lo scontro, tutto nel campo liberale, avvenga assecondando “il legame tra la ricchezza delle nazioni, la divisione del lavoro e la sua regolazione attraverso il mercato” e di conseguenza. Le logiche del “laisser-faire” e dello “status quo” che appaiono contraddittorie sono complementari, perché, come precisa Stiegler, “la morale, propria della specie umana, emerge esattamente da questa tensione perpetua tra </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">habit</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"> e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">impulse</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">, sempre sul punto di entrare in conflitto”. È nella loro intersezione che si arriva al dissidio tra</span><span class="Apple-converted-space" color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"> </span><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">“una politica attiva e volontaristica di sublimazione delle pulsioni” e “una giuridicizzazione generale delle relazioni sociali” che prevede come risultato conclusivo “l’esclusione definitiva dell’intelligenza collettiva”. È il momento in cui Barbara Stiegler ricorda che “la tensione tra il limite delle capacità di attenzione e il flusso illimitato delle informazioni da assimilare si riverbera in un’ulteriore tensione, quella tra la stasi del sapere scolastico e il flusso permanente del cambiamento”. È un punto di non ritorno ricorrente, ma bisogna riprendere Alexander Rüstow per riconoscerlo: “La prospettiva economica è insufficiente per valutare la situazione vitale. L’essere umano è un essere naturalmente sociale e, per la sua vita e per l’analisi della vita che egli conduce, l’inserimento sociale risulta decisivo”. Dovrebbe essere così, ma la realtà resta ancorata, né più né meno della diatriba tra Lippmann e Dewey, ai principi e alle logiche del mercato e secondo Barbara Stiegler, “questo spiega perché le uniche differenze ammesse nel campo politico siano piccole variazioni, il più possibile neutrali, tali da permettere la riforma graduale delle regole e da allontanare lo spettro del conflitto e della rivoluzione”. La vera sintesi vissuta nella democrazia è quella che Noam Chomsky chiama la “manifattura del consenso” e, in conclusione, la critica di Stiegler si fa circostanziata: “Facendo prevalere, in nome di presunti istinti naturali, l’istituzione economica della proprietà e il gusto per la competizione su tutte le altre forme di interazione, il liberalismo ha commesso un grave errore interpretativo sulle potenzialità molto più ampie dell’</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">impulse</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">. Nell’ambizione di voler liberare il movimento evolutivo dell’innovazione emancipando gli individui dalle limitazioni della società, li ha invece progressivamente intrappolati in vincoli ancora più restrittivi, arrivando persino a standardizzare i loro modi di sentire e pensare”. Un lavoro enorme, che richiede la pazienza di un intero corso universitario, ma che ha un’ottica tale da riassumere con precisione più di un secolo di filosofia, politica ed economia.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-21345863180940343012023-10-09T03:25:00.006-07:002023-10-09T03:27:20.563-07:00Murray Bail<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQYua8qR-zncXUW-yWYWsnOfcBFkI48jPI1DCTUbqNJLHDV0RsIN8G2xHaJYs2twr9kcDfB_OiHjxyf6ooBPmWaz7bIR70yelvC9_K7Cp3s8NRaKCbh-9Z_ch_uYa4P_XMezitwBpbfWMZ7szv1ODzloEbGgQC6uBnge7r3Z87uSsf8KuxjoMrUXKh8uk/s5109/Murray%20Bail.jpeg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="5109" data-original-width="3399" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQYua8qR-zncXUW-yWYWsnOfcBFkI48jPI1DCTUbqNJLHDV0RsIN8G2xHaJYs2twr9kcDfB_OiHjxyf6ooBPmWaz7bIR70yelvC9_K7Cp3s8NRaKCbh-9Z_ch_uYa4P_XMezitwBpbfWMZ7szv1ODzloEbGgQC6uBnge7r3Z87uSsf8KuxjoMrUXKh8uk/s320/Murray%20Bail.jpeg" width="213" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Quando Bertolt Brecht diceva che “oggi guardare un albero è quasi un delitto” non era lontano dalla profezia ed è proprio in quella direzione che si è avviato, con rara maestria, Murray Bail. Per Holland, il protagonista di </span><span style="font-family: georgia;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Eucalyptus</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">, “il mondo degli alberi offriva almeno una solida base. In fondo si trattava di un vero e proprio mondo libero da psicologismi, un universo chiuso e aperto al tempo stesso. Il compito di classificarlo e descriverlo era ragionevolmente complesso. Gli eucalipti, per esempio, erano soggetti difficili, ma si potevano considerare una cosa sola, come una persona riprodotta infinite volte”. Ci sono più di settecento specie e catalogarle tutte non è soltanto l’ossessione di Holland, ma anche il tentativo di ricordare che “l’immobilità è bellezza, sempre”. Ogni tipo rappresenta una ricchezza a sé, tutti condividono qualità vegetali importanti per gli uomini e soprattutto per le api, ma per Holland acquisteranno un valore particolare, assoluto. Quando ritrova la figlia Ellen (“Gli occhi e la mascella della ragazza recavano la sua inconfondibile impronta. Aveva anche lo stesso doppio sorriso, e lo stesso modo di aggrottare le sopracciglia quando doveva rispondere a una domanda. Con le donne del paese era molto educata”) l’elenco completo degli </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Eucalyptus</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> diventa la prova d’amore per ogni pretendente. La conformazione fiabesca </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">non rinuncia a identificare il particolarissimo territorio dell’Australia “dove i fiumi corrono troppo veloci verso il mare; una svista della natura che ha dato origine a una vasta zona morta, una regione di assurda desolazione, che a nulla serve se non a incoraggiare milioni di fotografi scadenti e a scatenare l’immaginazione di politici, giornalisti e altri pensatori”. È una prospettiva in cui “alcuni popoli, alcune nazioni, vivono in un’ombra perenne. Altri invece fanno ombra: una lunga ombra li precede, persino in chiesa o quando c’è il sole, che viene prosciugato dallo straccio sporco delle nubi”. Ed ecco che, nella trama di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Eucalyptus</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">, “il paesaggio s’insinua ancora nella nostra narrazione, anche se non per molto. Una baracca usata per tosare le pecore galleggia sulla propria ombra, ormeggiata alla casa padronale dalla linea indolente di una recinzione. Va da sé che la terra di cui parliamo è come ornata di recinti. La linea retta è sempre, marcatamente umana”. Proprio attraverso Ellen scopriamo che “esistono storie (così le venne spiegato) così inconsistenti da non potersi quasi definirle tali. Ce ne sono alcune che si esauriscono in una riga o due: frammenti senza una fine, troppo aderenti al reale. Sono storie solo in senso lato, o possibili storie”. All’ombra di una foresta “che è linguaggio”, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Eucalyptus</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> si eleva ricordandoci che “ogni soggetto al mondo ha la sua storia, è ovvio, che è il risultato di altre storie, e così all’infinito”. La presenza incombente degli alberi e della loro definizione è la prova vivente e ingombrante che “anche un semplice nome può generare una storia. L’imprevisto può manifestarsi nel piccolo e nel grande”. Murray Bail ha il pregevole e raffinato dono di lasciarsi trasportare dai suoi personaggi e la sua scrittura, lirica, elegante ed eclettica, riesce a ribadire che “eppure è innegabile che anche il più breve aneddoto (e qui non diciamo storia) è in grado di produrre un’eco dal potere strano, indelebile. Non dimentichiamo che per la stessa ragione gli artisti attribuiscono un grande valore a disegni e abbozzi”. Non a caso, Michael Ondaatje ha definito </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Eucalyptus</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> “uno dei più straordinari e meravigliosi corteggiamenti nella storia della letteratura”. Di sicuro, è un romanzo intenso e singolare, che affascina e incanta e, sapendo che “i grandi alberi generano storie ancora più grandi”, asseconda uno sguardo capace di cogliere un frammento e di trasformarlo in qualcosa di infinito.</span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-1047582643483687622023-10-02T23:08:00.002-07:002023-10-02T23:08:39.827-07:00James Yorkston<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhyhZdKhg7cBiGWGQVsggDjuoYmwzaNxgTzDabGZNNiGOeocMCnljGloOZjuuMwAZ0udR14VVLRpkQqnvYNpg3Vq4cSoakBMGfZmDEwmqou4SReTGL0hoyzwdvkjg05ih3RJYquS7ALRzABEiRp-mHammRI0K-8UscnZqkxUwYr4tlCpiSg00SS1G7x328/s396/James%20Yorkston.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="396" data-original-width="258" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhyhZdKhg7cBiGWGQVsggDjuoYmwzaNxgTzDabGZNNiGOeocMCnljGloOZjuuMwAZ0udR14VVLRpkQqnvYNpg3Vq4cSoakBMGfZmDEwmqou4SReTGL0hoyzwdvkjg05ih3RJYquS7ALRzABEiRp-mHammRI0K-8UscnZqkxUwYr4tlCpiSg00SS1G7x328/s320/James%20Yorkston.jpg" width="208" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Capire cos’abbia valore è un dilemma universale che James Yorkston plasma e modella seguendo Fraser McLeod e i figli Paul e Joseph in un viaggio attraverso l’Irlanda che è “solo un grande denso, umido grigio” con “un pub ogni casa su due”. Una geografia è limitata e la destinazione provvisoria è Dublino dove il padre deve incontrare un editore che ha risposto all’invio dei suoi componimenti versi, ovvero <i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">Il libro dei gaeli </i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">in sé. Il riscontro ha acceso la speranza di un futuro migliore garantito dalla poesia, poco più di un sogno a occhi aperti. Trovare la direzione per i resti di “una famiglia di tre persone, con una valigia di qualità scadente” è un’impresa epica e dolorosa. Si succedono i mezzi di locomozione: l’autobus (quasi un miracolo), un carretto traballante, ma il più delle volte si ritrovano a camminare in un territorio depresso e ostile, dove “non cambia nulla tra un paese e un altro”. I due bambini costituiscono un microcosmo a parte: sono in lotta perenne con: a) la fame; b) il freddo; c) il sonno. L’idea di felicità è una patata fritta e starsene abbracciati al papà, ma gli eventi li portano a intraprendere ogni forma di resistenza che riescono a ideare nella lotta per la sopravvivenza. In una sosta attorno “a un fuocherello” Joseph e Paul “con le pance che brontolano ancora una volta”, si ritrovano a</span><span class="Apple-converted-space" color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"> </span><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">chiedersi “se andremo avanti, se andremo via da qui”. Se il leitmotiv resta la strada, la vera poesia è la relazione tra i fratelli e l’amore filiale, a tratti condito con il sollievo della musica e delle canzoni. James Yorkston, che è un valido cantautore, ha il dono della voce e sa replicarla sviluppando </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">Il libro dei gaeli </i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">come una lunga ballata: il racconto è lineare, la scrittura è essenziale, ruvida e a tratti persino grezza, ma perfettamente consona allo scopo perché segue da molto vicino i suoi protagonisti finché non si ritrovano nelle pieghe di Dublino. La città, che si rivela una volta di più un groviglio dalle profondità inesplorate, diventa una trappola. Scoprono che l’editore che aveva risposto è soltanto un anello nella lunga catena di illusioni e i bassifondi li inghiottono con una rapidità micidiale. L’intera famiglia si ritrova a prima mendicare sui marciapiedi, proprio per un caso del destino, e poi viene coinvolta in una torbida combine. A quel punto la poesia non serve più e l’intera famiglia può solo contare sull’inventiva dei due fratelli. I passaggi sono repentini, avvengono senza preavviso e in questo James Yorkston è molto acuto nel sottolineare le svolte. Se il percorso verso Dublino appare con tutti i connotati dell’iniziazione (con le prove incontrate lungo il tragitto) e nell’insieme le sfumature suggeriscono l’atmosfera di un romanzo picaresco, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">Il libro di gaeli</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"> si svolge in modo autonomo e coinvolgente. Ci sono almeno due livelli di lettura differenti: le azioni (e di cose ne succedono un bel po’) si svolgono in una definizione sfumata, come se fossero viste attraverso un vetro incrinato. Nello sguardo dei bambini sembra svolgersi tutto al rallentatore e invece la storia si snoda a colpi di frusta, con un background oscuro che riaffiorerà nei finali (sì, sono più di uno) mettendo definitivamente in chiaro quello che vale, oppure no. Per la poesia ci sarà sempre tempo, ma intanto </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;">Il libro dei gaeli</i><span color="rgba(0, 0, 0, 0.85)" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); text-align: justify;"> puzza di alcol, di Irlanda, di strada, di vita, come pochi altri.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-2043055873398329522023-09-01T01:39:00.005-07:002023-09-01T01:41:37.786-07:00Adam Mars-Jones<p class="p1" style="-webkit-text-stroke-color: rgba(0, 0, 0, 0.85); color: rgba(0, 0, 0, 0.85); font-feature-settings: normal; font-kerning: auto; font-optical-sizing: auto; font-stretch: normal; font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variation-settings: normal; line-height: normal; margin: 0px 0px 2px 6px; text-align: justify;"><span class="s1" style="font-kerning: none;"><span style="font-family: georgia;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6LMo6j1lDgaMeVfDV5Qg4Rm7abPMBw-xXNFYCTUJ9GTlgMS9K6ddhmdmslfLdUoZjLlg788tooSm4hyhBE75fpbwaiha6iffHA3JKWhWjFhGX5L84lKUBKHQBJGBZ033dSLzuGZwcm0FUtKHRSbelnSrjYzhH-i6Cy0tlzgH1jiOQnsNE4RvePVLZ-ag/s1920/Adam%20Mars-Jones.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1920" data-original-width="1205" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6LMo6j1lDgaMeVfDV5Qg4Rm7abPMBw-xXNFYCTUJ9GTlgMS9K6ddhmdmslfLdUoZjLlg788tooSm4hyhBE75fpbwaiha6iffHA3JKWhWjFhGX5L84lKUBKHQBJGBZ033dSLzuGZwcm0FUtKHRSbelnSrjYzhH-i6Cy0tlzgH1jiOQnsNE4RvePVLZ-ag/s320/Adam%20Mars-Jones.jpg" width="201" /></a></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Sullo sfondo del Regno Unito degli anni settanta, “un mondo antiquato”, ingessato e decadente, la storia di <i>Box Hill</i> ruota attorno al rapporto tra Colin e Ray. Colin è poco più che un bambino, Ray è un mistero. È il leader indiscusso di una banda di biker, che ha orizzonti e necessità limitate: le moto (inglesi), l’alcol, il poker e il sesso orale, da cui tutto è cominciato. Il nocciolo di <i>Box Hill</i> resta il legame tra Colin e Ray, nonostante le divagazioni di quest’ultimo e il precario equilibrio middle class della sua famiglia. Non è un rapporto paritario, neanche per sbaglio: Colin è soggiogato, per non dire usato, in modo brutale. Ray limita l’uso della parola allo stretto indispensabile, si fa capire soprattutto attraverso l’esperienza gestuale e fisica, anche dal punto di vista sessuale. La violenza della sottomissione è implicita ed esplicita: da parte di Colin c’è un’ambigua forma di accettazione all’interno del rapporto con Ray. Non è soltanto una passiva subordinazione: è un circuito chiuso in cui Colin trova la sua libertà, o almeno una parte della sua personalità, all’interno di una convivenza squilibrata. Il paradosso si trascina per tutto il romanzo: <i>Box Hill</i> è una storia spigolosa e Adam Mars-Jones non fa nulla per renderla più malleabile, mostrando senza pudori tutta la fragilità di Colin e della famiglia compresi gli sviluppi imprevisti che portano a una trama spezzata e in gran parte irrisolta. Tutto si svolge molto in fretta e l’occasione di ripristinare i fatti porta Colin a confessare: “Ho passato un sacco di tempo a ripetermi che su quanto accaduto a Box Hill nel 1975, il giorno del mio diciottesimo compleanno, non avevo avuto alcun controllo. Mi vedevo come uno di quei rapiti che vanno in fissa coi loro rapitori, solo che per via del carisma di Ray era successo tutto molto in fretta”. La scelta della prima persona implica un senso di responsabilità nel coesistere con le conseguenze a lungo termine di un legame tossico, e non potrebbe essere diversamente. Nel rileggerle Adam Mars-Jones alias Colin arriva al punto di ammettere che “prima o poi dovevo affrontare il brivido e il pericolo. Era solo questione di dove e quando”. Quasi per una legge del contrappasso nei confronti del brutale passato trascorso con Ray, Colin non guida né le moto (che nel frattempo sono diventate giapponesi), né l’auto. Diventerà un manovratore della metropolitana, (“Tutti trovano grottesco che ogni santo giorno affidino un treno a uno senza patente. La mia risposta è: sono competenze diversissime. I treni non devono superare rotatorie”) da dove ha una particolare visuale sui tentativi di suicidio, un pensiero ricorrente che lo riporta al senso di inadeguatezza vissuto con Ray. Nello sviluppo dritto e lineare come un binario, Adam Mars-Jones riporta ogni cosa con uno stile asciutto, essenziale, che si adatta alla perfezione al senso doloroso di <i>Box Hill. </i>Le ferite emergono con chiarezza, se non proprio con sincerità, ma manca qualcosa, forse una definizione finale o un’armonia complessiva. Di sicuro è un romanzo scomodo, irto di domande, e di questi tempi non è poco.</span></div><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-75128135541064658952023-07-31T08:07:00.004-07:002023-07-31T08:11:59.451-07:00Clarissa Goenawan<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgw-TkKNlXFmWyyhvaWYG1_cIM63TNHA_2gaQnpGep3OOYQNInvacZwyVWcZuE9rnCS9wHVQ6Sdr6x_yZ7tWVuOBaWnDdy4L0pxQ5CUcVIVNYuff7ZdaueE02i6FNoqlaPVcdhGFkQ90FepFWTNHLU325Klx5Ecx23Whzf4HyzGl3-VHF5PE0PuLW_Ezt0/s2299/Clarissa%20Goenawan.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="2299" data-original-width="1500" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgw-TkKNlXFmWyyhvaWYG1_cIM63TNHA_2gaQnpGep3OOYQNInvacZwyVWcZuE9rnCS9wHVQ6Sdr6x_yZ7tWVuOBaWnDdy4L0pxQ5CUcVIVNYuff7ZdaueE02i6FNoqlaPVcdhGFkQ90FepFWTNHLU325Klx5Ecx23Whzf4HyzGl3-VHF5PE0PuLW_Ezt0/s320/Clarissa%20Goenawan.jpg" width="209" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Come la distanza di un riflesso è inesplicabile, così le scelte per amore sfilano come solchi sull’acqua, nitidi e invisibili nello stesso tempo. Il paradosso di </span><span style="font-family: georgia;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">Watersong</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">, costruito con certosina pazienza e con una particolare grazia da Clarissa Goenawan, comincia proprio nel momento in cui Shoji Arai segue la fidanzata Yoko Sasaki, da Tokyo ad Akakawa. Sono quattro ore di strada, una in aereo, ma c’è tutto uno spazio nel mezzo, anche perché</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">scopre che il lavoro di Yoko è ascoltare, ed è ben pagato. Presto Shoji, per quanto riluttante, viene coinvolto: l’ambiente è criptico, e all’inizio non trova nessuno, finché non arriva una cliente importante, anche troppo. Mizuki è infatti la moglie di un potente politico, nonché proprietario dell’azienda e riconosce al suo interlocutore l’intimo privilegio di essere ascoltata. Secondo lei “il talento è solo fatica e fiducia in se stessi” e Shoji Arai, un passione nascosta per la scrittura, un passato da nuotatore, deve soltanto ascoltare, e ascoltare è un’arte. L’unica regola è che non deve intervenire, ma le regole sono fatte per essere trasgredite, soprattutto se nascondono soprusi e violenze, dato che Mizuki gli confessa: “A volte non so se quello che sto facendo è aspettare o dimenticare. È passato così tanto tempo. Sta diventando difficile distinguere le due cose”. Vedere è un’altra cosa rispetto ad ascoltare e Shoji Arai, ormai diventato un testimone, e di conseguenza Yoko, vanno contro un potere oscuro e malefico, che concentra influenze politiche, famigliari e criminali in un conglomerato invisibile, ma onnipotente, che li costringe alla fuga. Il prezzo da pagare è nascosto in un libro di poesie di William Carlos Williams avuto in regalo, ed è lecito immaginare, tra le parole lette da Shoji, quelle di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">Aprile</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;"> (</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">Dalla primavera trasportata al morale</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">): “Le forme delle emozioni sono cristalline, con sfaccettature geometriche. Così ce ne rendiamo conto solo nel calor bianco della comprensione, quando una fiamma s’insinua rapida nel varco creato dall’apprendere”. L’alone di mistero che li circonda non è dovuto soltanto alla condizione di Mizuki, ma anche (e soprattutto) alla fragilità dei legami che restano fluidi come l’acqua, per quanto mai altrettanto trasparenti. Pare evidente, nel contesto di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">Watersong</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">, che l’identità non ha corrispondenze nella solitudine e si forma soltanto come un’unità compiuta all’interno di una coppia, per quanto fragile, contraddittoria e limitata l’unione possa essere. Si capisce perché, nelle raffinate geometrie di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">Watersong</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">, i personaggi maschili, salvo Shoji (ovviamente), tendano a sparire in fretta e spesso non di propria volontà: il misterioso signor Sato, un’enigmatica figura in guanti bianchi, Toru Odagiri (un reporter affrettato e maldestro), lo zio Hidetoshi, il professor Takeshi Goda e lo stesso Kazuhiro Katuo compaiono come figure ambigue e defilate. Le figure femminili invece si susseguono determinando tutte le svolte di </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">Watersong</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">, da Yoko a Mizuki, da Lyiun a Eri, una vecchia conoscenza che consiglia a Shoji: “Se sai di aver fatto un passo falso, prova a fare qualcosa di diverso. Risolvi il problema. Non crogiolarti nel rimpianto”. Sulla carta sembrerebbe un saggio suggerimento, nella realtà lo porterà ancora a camminare nei solchi dei ricordi e a cercare Yoko, di cui dovrebbe ricordare l’ammonimento: “Be’, tutti hanno un segreto che non vogliono che nessuno scopra mai”. È troppo tardi e Shoji Arai, inseguendo un ideale di amore, ha perseverato nell’errore nel tentativo di ricostruire il passato, o di rileggerlo e Clarissa Goenawan rimanda la conclusione all’epilogo, così come aveva cominciato tutto con la profezia acquatica del prologo. I cerchi sulla superficie si espandono e si annullano e </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">Watersong </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(98, 98, 98); background-color: none; color: #626262; text-align: justify;">lascia la sensazione di essere prigionieri di una corrente, inafferrabile, intricata e affascinante.</span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-73862103772514254802023-07-03T23:40:00.003-07:002023-07-03T23:40:50.979-07:00George Steiner<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPyEMMxiKH41GKa0F9b3h6Y1OSFBQkoYMX99Pi4BojdbX_WPuRUV-IQG7gmZfkcdcyeHEqy6Aso83OJesA40dtlZyTMHkzTRZdOInB_5ZFHCGmiqwwy7UvFmcbhUJGX60Ewqc2qG8_C3w8x7AAxOGQP1ut3jEXzXZ3_j1beCnJrHDpgMAveGnPARiF5yE/s700/George%20Steiner.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="700" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPyEMMxiKH41GKa0F9b3h6Y1OSFBQkoYMX99Pi4BojdbX_WPuRUV-IQG7gmZfkcdcyeHEqy6Aso83OJesA40dtlZyTMHkzTRZdOInB_5ZFHCGmiqwwy7UvFmcbhUJGX60Ewqc2qG8_C3w8x7AAxOGQP1ut3jEXzXZ3_j1beCnJrHDpgMAveGnPARiF5yE/s320/George%20Steiner.jpg" width="194" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Le qualità di un uomo che rettifica ogni testo, anche quello di un foglio di giornale che rotola nel vento, sono messe a dura prova dalla dissoluzione delle ideologie del ventesimo secolo. Il Gufo alias <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il correttore</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è consapevole che “ogni </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">erratum</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è una menzogna definitiva” e si applica con totale partecipazione a verificare “i protocolli giudiziari, gli atti di compravendita, gli avvisi delle finanze pubbliche, i contratti, le quotazioni in borsa” e, ancora, “la giustificazione delle colonne di cifre più lunghe, gli sterminati elenchi di oggetti smarriti messi all’asta dalla posta o dall’azienda dei trasporti pubblici”. La deformazione professionale lo porta a cercare con ossessione la precisione e la correttezza mentre i sistemi collassano all’improvviso: l’esistenza frugale del Gufo si scontra con gli interrogativi delle grandi utopie e allora lavora “per correggere il più infimo refuso in un testo che forse nessuno leggerà mai o che verrà mandato al macero il giorno dopo”. Lo scopo è “l’esattezza. La santità dell’esattezza. Il rispetto di se stesso”, ma è difficile crederci mentre tutto intorno il tempo si sgretola trascinando nel crollo le illusioni, le certezze, i destini scritti nei libri di storia. Non c’è alcuna possibilità di controllo o di riforma per il Gufo, davanti alle folle che sventrano muri o al cospetto di torture indicibili. Troppi errori che non si possono rimuovere, troppe deviazioni incontrollabili, variabili di un futuro improprio, non previsto, non malleabile. Nel frammentario dialogo con i compagni, (padre) Carlo, Maura e Lombardi, alla ricerca di motivi spazzati dal caos, dalla violenza, dalle atrocità commesse in nome di un partito, di un dittatore, di un diktat, il Gufo cerca di tenere una posizione, di rispettare il confronto, di accumulare argomenti ma, nel buio, sembra non restare niente delle costruzioni umane, come se fossero soltanto teorie ormai bruciate, distrutte. La fragilità è intrinseca, l’inesattezza è dietro l’angolo e resta solo una notte con Maura, i corpi avvinghiati nell’ombra. George Steiner tesse una sottile trama, a tratti sfuggente e impercettibile, ma lascia scivolare alcune domande con un peso specifico enorme. Riesce a ridisegnare l’apparato emotivo di fronte alle grandi questioni della civiltà, dove la logica non trova risposte sufficienti, anzi, va in crisi e crolla. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il correttore</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> è un romanzo che comprime le svolte storiche, proprio mentre diventano fenomeni dialettici. Quando il Gufo si vede compromesso in una realtà o la sua percezione che gli sfugge di mano, la razionalità delle parole appare quasi inutile, figurarsi se cambiare il nome a un partito o addirittura a una nazione può servire a qualcosa. Nei suoi tormenti quotidiani (e notturni), le aberrazioni sono vietate eppure il mondo sembra non poterne fare a meno, lasciandolo con la “convinzione fuggevole e folle che l’universo abbandonato, come una casa lasciata aperta dopo la partenza dei camion dell’impresa di traslochi, sarebbe sprofondato nell’oblio se lui non fosse riuscito a realizzare il suo scopo del momento”. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Il correttore</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> vive la solitudine della politica, che non ammette revisioni, e non lascia speranze, soltanto piccole, trascurabili note a piè di pagina.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-53791417428865890182023-05-31T02:03:00.005-07:002023-05-31T02:04:02.989-07:00Predrag Matvejević <p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; font-size: 25px; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiPotr3ldLlfRKLqXoVD0_gLmAaEuljAjVSj_jMApu8vKOTYKOWD3xY9m3GN9SNv5cW_EeQ7ZIq6IKwwLEPb2LGIRjeJ9RpUHBuTttNR5IcbaI6dqY2PKk6wtXW3RvekyppuHLCzCZ9xL8seOVWaT89Qk77mKmWfQR6Od8_x5FVwN0y8x_ugT_rjfLR/s4638/Predrag%20Matvejevic%CC%81.jpeg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="4638" data-original-width="3115" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiPotr3ldLlfRKLqXoVD0_gLmAaEuljAjVSj_jMApu8vKOTYKOWD3xY9m3GN9SNv5cW_EeQ7ZIq6IKwwLEPb2LGIRjeJ9RpUHBuTttNR5IcbaI6dqY2PKk6wtXW3RvekyppuHLCzCZ9xL8seOVWaT89Qk77mKmWfQR6Od8_x5FVwN0y8x_ugT_rjfLR/s320/Predrag%20Matvejevic%CC%81.jpeg" width="215" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Secondo Raffaele La Capria ormai “la realtà è sopraffatta dalla sua rappresentazione” e per evitare le trappole dei luoghi comuni quella di Predrag Matvejević è “una Venezia fatta di scrittura che diventa materia e sensazione, materia e sensazione che riceviamo da Venezia, sensazioni di umido, di acqua, di marcio, di tempo, di bellezza, di passato, di malinconia, di miraggio, di marmo, di sabbia, di fango, di oro, di sfumato, di splendente, di torbido, di Venezia insomma, dell’indicibile Venezia”. Non poteva esserci introduzione migliore: quando Matvejević si immerge nella città, si accorge ben presto che “tra l’oscurità che cala e la nebbia che si infittisce, le forme diventano contorni. La banalità scompare”. La sua è un’esplorazione istintiva, segnata da un’osservazione spontanea, se non proprio affidandosi al caso, come se fosse una riduzione</span><span style="font-family: georgia;"><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">pratica del destino. È una Venezia (e la sua Laguna) vista dal basso, fuggendo la panoramica del turista, inoltrandosi in vicoli e in sprazzi di mare, come refoli di scirocco ormai incontrollabili. La caccia al tesoro di Matvejević segue proprio le curvature nell’aria perché “a tradurre le forme del vento sono i rami curvi degli ulivi e dei pini, le erbe e le canne piega là dove sono esposte al turbine, macchie e cespugli, frumenti e biade allettati: in essi il vento ha lasciato le sue impronte, i suoi giochi, le sue figure”. La catalogazione della flora, sui muri e sul fondo dei canali, e della fauna segue una ricerca fatta di sguardi attenti alle sfumature dei tramonti così come alle geometrie dei ponti, dei cortili, dei pozzi e delle botteghe. Vengono portati in rilievo i cocci e le sculture “esterne” ed “erratiche”, i segni per le navigazioni, le scritte sui muri e persino l’onnipresente ruggine che appare “sfarzosa. La patina somiglia a una doratura”. È un paradosso, uno dei tanti della “città più inverosimile che sia”, che risale alla genesi della città. Nel suo </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Viaggio in Italia</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, Goethe sosteneva che, “non è stato per caso che quegli uomini (i veneziani) si sono rifugiati su quegli isolotti; non è stata una volontà straniera a incitare altri a unirsi a loro. La necessità li ha abituati a cercare la sicurezza nella situazione più sfavorevole, per loro diventata la più propizia: essa ha illuminato il loro spirito mentre, al Nord, il mondo intero era ancora nell’oscurità”. L’originalità di Venezia brilla nelle voci dei gondolieri, nelle navi affondate dai monaci per proteggersi dalle burrasche, negli anfitrioni che si distinguono tra un’ombra e l’altra. È così che Venezia “è diventata un’idea ed è rimasta a un tempo la città viva che l’umidità invade; è un’illusione e anche il luogo concreto che le onde adriatiche inondano; una rappresentazione della realtà e la realtà stessa che, a volte, si confondono l’una con l’altra o si oppongono a vicenda”. Predrag Matvejević colleziona anche vecchie e rudimentali fotografie, incisioni in rame, antiche mappe costruite assecondando voci e osservazioni riportate, annotazioni di una storia ricchissima e mutevole che si allunga su tutto l’Adriatico e per naturale estensione al Mediterraneo dove Venezia si colloca tra le altre città, Roma, Atene, Cartagine, Alessandria, Beirut, Napoli, Siracusa, Dubrovnik, Genova, Marsiglia, Siviglia, Istanbul, Gerusalemme, un mare cosmopolita. Un piccolo gioiello.</span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-81561052355545306022023-05-29T02:18:00.002-07:002023-05-29T02:18:49.430-07:00J. Á. González Sainz<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhDI1fVaJWiajpjdKGym7wTptgWu8Nc1LdNzbtl-5yYIzW3Kd2Xkg0tMIMx-YdpTVCJ4fpbdWDHfYLocWZyXHU0dIM3gUgdgKwoX-v4DdYfPE6RbCU1gX6HjVibGoVUBosYqRGgR_f9ZWd927L3opvHwcqVYcBs0iRE8z0igJrneqj1NUvPHw9dUpIH/s544/J.%20A%CC%81.%20Gonza%CC%81lez%20Sainz.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="544" data-original-width="327" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhDI1fVaJWiajpjdKGym7wTptgWu8Nc1LdNzbtl-5yYIzW3Kd2Xkg0tMIMx-YdpTVCJ4fpbdWDHfYLocWZyXHU0dIM3gUgdgKwoX-v4DdYfPE6RbCU1gX6HjVibGoVUBosYqRGgR_f9ZWd927L3opvHwcqVYcBs0iRE8z0igJrneqj1NUvPHw9dUpIH/s320/J.%20A%CC%81.%20Gonza%CC%81lez%20Sainz.jpg" width="192" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Due racconti per <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Due.città, </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Trieste e Venezia, sprofondate nella storia, delimitate dalle frontiere, dalle coste e dalle lingue, popolate di ombre e di ricordi, di movimenti infiniti che attraversano il tempo, lo condensano in forme e lo conservano in architetture dove l’incontro e l’addio formano un’onda inarrestabile e dove ogni deviazione genera un varco, uno spazio, una nuova opportunità che è una potenziale intersezione, un attraversamento verso l’incognito e l’inesplorato. In </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Una leggera differenza di espressione</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">, Trieste è lo scenario di un commiato che arriva come un sipario imprevisto (ma non imprevedibile) che copre con un velo indecifrabile tutta una mappa di emozioni. Claudio Magris dice che Trieste è “una città di scrittori grandi, mediocri o falliti, perché i contrasti che elidono e paralizzano la sua storia inducono a credere che solo scrivendo, esprimendo questo stallo possa dare consistenza alla propria persona”. Proprio così: </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Una leggera differenza di espressione </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">riesce a cogliere alla perfezione l’atmosfera di “un destino che è il destino del caso, un buon risultato che è conseguenza dell’errore, una città che è tutte le città in un luogo che è tutti i luoghi e un tempo che è tutti questi ultimi tempi, il luogo di tutte le contraddizioni e di tutti gli incontri, con la montagna che prende la città alle spalle e il mare che le entra in faccia, e da tutte le parti, alle spalle e in faccia e sopra e altrettanto sotto, fuori ma anche perfino dentro, il vento come un avviso reiterato, la storia che non finisce di passare”. Qui Trieste e Venezia coincidono o, meglio, collidono, e condividono una dimensione arcana, ma neppure poi tanto. Se a Trieste il movente è la dissoluzione, a Venezia è la scelta, o la possibilità, la chance dietro l’angolo. Eppure Trieste appare aperta, indefinita e illimitata, uno sguardo su un’orizzonte di confini, mentre Venezia è chiusa, circoscritta, delimitata da sponde e incroci, dove ogni bivio presuppone una svolta. Il protagonista che affronta tutti i giorni </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">L’altra strada</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> nel tragitto da casa al lavoro, e viceversa, ammette la condizione kafkiana: “Non so come io riesca a rimanere ogni giorno imperturbabile, o forse soltanto intimorito, confuso, davanti all’eventualità che quell’altra calle mi porge di correggere un itinerario o di arricchirlo, di risolvere un’incognita o di appianare un dubbio”. La sua ambivalenza è un po’ la nostra perché “ci sono tante strade che una volta prese ti portano lontano, dopo alcuni metri oppure al termine di una lunga serie di svolte, sul bordo di un canale o semplicemente in una casa o in un cortile di un caseggiato, in un vicolo cielo! Ci sono tante strade senza uscita, tante calli morte che non vanno da nessuna parte!”. Nell’ambiguità del suo labirinto c’è qualcosa di ipnotico dato che, come scriveva Predrag Matvejević, “Venezia è diventata un’idea ed è rimasta a un tempo la città viva che l’umidità invade; è un’illusione e anche il luogo concreto che le onde adriatiche inondano; una rappresentazione della realtà e la realtà stessa che, a volte, si confondono l’una con l’altra o si oppongono a vicenda”. Il tormento che </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">L’altra strada</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> impone è uno stillicidio per il protagonista che “ogni giorno e ogni volta di ogni giorno” si ritrova</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">“davanti agli stessi crocevia” e, di nuovo, le </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Due.città</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> si sovrappongono perché “non c’è in fondo altro modo di dissipare veramente il mistero se non con una perdita in ogni caso”. Dovrebbe essere chiaro fin dall’inizio, quando J. Á. González Sainz si premura di illustrare il destino di questi “racconti naufraghi”: “Ecco la dialettica narrativa: il gioco infinito della tensione, della ritorsione, del retro e dei ritorni. Non c’è niente senza ritorno, senza rovescio. E il rovesciare è il nostro compito, il ritornare”. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;">Due.città è</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); text-align: justify;"> proprio come una moneta preziosa, testa o croce, avanti e indietro, doppio in uno, da conservare fino alla fine del viaggio, che, non si sa mai, come succede spesso a Trieste e/o a Venezia, potrebbe essere un’altra partenza.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-70446593011490109752023-05-24T06:36:00.005-07:002023-05-24T06:37:35.705-07:00John le Carré<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiPj20ZoQDeWMdM8Jg7QwSIuS8QD_bbI4dZts_RhiDusmC24nGzr8fHoV8hggqwTAbn9GQV5pAk8Pzycn-jQ2FNYaCy09uaM4oXjoIuLulHXCHzVUpCSuVf9D08B2hmvFrQqm7An9QRd0jk78b4p5CjvBkzsCIWyEpWCIEVO3lvW4d1mRv_ij_a-hEZ/s650/John%20le%20Carre%CC%81.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="650" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiPj20ZoQDeWMdM8Jg7QwSIuS8QD_bbI4dZts_RhiDusmC24nGzr8fHoV8hggqwTAbn9GQV5pAk8Pzycn-jQ2FNYaCy09uaM4oXjoIuLulHXCHzVUpCSuVf9D08B2hmvFrQqm7An9QRd0jk78b4p5CjvBkzsCIWyEpWCIEVO3lvW4d1mRv_ij_a-hEZ/s320/John%20le%20Carre%CC%81.jpg" width="209" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Dopo l’11 settembre, “i difensori della costituzione” sono alle prese con minacce invisibili, cellule “dormienti”, intrusioni di servizi segreti alleati sul territorio della repubblica federale tedesca. Tutti vogliono risposte e se non c’è un pericolo, è meglio inventarselo. Amburgo, una città dalle mille possibilità, diventa così l’humus ideale per John le Carré che assembla tutta una serie di cliché nei personaggi adatti, una volta radunati tutti insieme, a fornire un quadro esaustivo e, va da sé, un colpo di scena finale. Annabel Richter, avvocato, idealista, di buona famiglia, viaggia in bicicletta, si crede o si sente coraggiosa e si spende con generosità, ma anche con qualche ingenuità di troppo. Tommy Brue è un banchiere che deve nascondere un fallimento latente nei suoi uffici e un matrimonio che è già fallito (ed è il secondo) e deve provvedere ad alcuni conti riservati chiamati “lipizzani”, l’ultimo dei quali è appannaggio dell’unico erede del colonnello dell’Armata Rossa Grigori Borisović Karpov, ovvero Yssa o Ivan Karpov, avuto dalla fugace relazione con una donna cecena e arrivato per vie clandestine ad Amburgo. Si scoprirà che l’entità dell’eredità è di dodici milioni di dollari, non proprio una somma frugale ed è qui che, come una forza superiore, in gran parte incontrollabile, interviene una rete di servizi segreti (tedeschi, inglesi e americani) che complottano per trasformare una partita economica nella cattura di un potenziale finanziatore del terrorismo globale. Cominciano a manipolare uno dopo l’altro tutti i protagonisti, che, passo dopo passo diventano parti di una macchinazione che ha uno scopo ben preciso, per quanto invisibile. Yssa, tanto per cominciare, non ha documenti, è in fuga ed è entrato illegalmente in Germania. Annabel, che l’ha aiutato, con tutte le buon intenzioni di questo mondo, è altrettanto a rischio per aver violato le le leggi sull’immigrazione. Tommy Brue, neanche a dirlo, ha un buco nero (e neanche tanto metaforicamente) alle spalle, tra i conti “lipizzani”, le pratiche non sempre (quasi mai) legali della sua banca e altre deviazioni di percorso. Tommy è innamorato di Annabel, anche se si rende conto che è una questione fuori discussione, per non dire imbarazzante. Faisal Abdullah è inserito nella realtà tedesca, ed è garantito al novantacinque percento ma c’è sempre quell’ultima piccola percentuale che può creare un grande danno. Sono tutti ricattabili e spendibili e per il veterano dei servizi tedeschi Günther Bachmann (e la sua assistente Erna Frey) l’occasione è troppo ghiotta per non lasciarsi tentare: così coinvolge Annabel per manipolare Yssa e arrivare ad Abdullah, che rimane il bersaglio finale. Nel frattempo i servizi inglesi impongono a Tommy Brue di prestarsi al gioco e questi li asseconda tra un colpo di testa e l’altro anche perché il rapporto con il sottobosco dello spionaggio è di lunga data, e risale persino alla figura ingombrante del padre. La storia di <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Yssa il buono</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> è una matrioska scoppiettante che non lascia tregua e John le Carré interpreta con la consueta abilità l’evolversi dei personaggi e delle situazioni in cui sono coinvolti e, in parallelo, sa leggere anche le deformazioni degli apparati di sicurezza che hanno generato un clima di paranoia dopo l’11 settembre, compreso il finale tranchant, ma molto realistico.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-65847479577759036012023-05-22T00:16:00.007-07:002023-05-22T00:17:44.724-07:00Robert Westall<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixBdIObOQs-x8_Xxx8DVky68Fci8IXFgKgX_H5jehTeV0QIu3-p9lPyxXxor_7UzLuDEp4uStkQVp3Qeo7I6MeRLGGcs_SE36qL5JOOZvsfQJKKFplN63duJ7lBOjWzxFF_vElokxGSwxstsUM-5yF9IgI1rrO0upjFtukD3miafIoJkL5SSUsD-C7/s792/Robert%20Westall.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="792" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixBdIObOQs-x8_Xxx8DVky68Fci8IXFgKgX_H5jehTeV0QIu3-p9lPyxXxor_7UzLuDEp4uStkQVp3Qeo7I6MeRLGGcs_SE36qL5JOOZvsfQJKKFplN63duJ7lBOjWzxFF_vElokxGSwxstsUM-5yF9IgI1rrO0upjFtukD3miafIoJkL5SSUsD-C7/s320/Robert%20Westall.jpg" width="217" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Nel 1940 il disturbo da stress post-traumatico non era ancora stato diagnosticato. I reduci però ne soffrivano né più né meno di oggi. Anche Garmouth, una piccola cittadina inglese sulla costa, è oppressa da un lancinante disagio: ogni notte i bombardieri nazisti attaccano senza quartiere alimentando la paura dell’invasione. Con un aplomb molto britannico, la comunità di Garmouth cerca di sopravvivere, organizzando i soccorsi e le difese e provando a mantenere una parvenza di normalità nella vita quotidiana, frequentazioni scolastiche incluse. Chas, alias Charlie McGill, un ragazzo sensibile e acuto, osserva la lotta di ogni giorno da un punto di vista privilegiato, tenendo conto dei segnali che arrivano da piccoli dettagli. Se dopo il cessato allarme il carretto del latte era ancora carico era un “brutto segno”, perché “ogni bottiglia avanzata significava qualche famiglia bombardata durante la notte”. Per esorcizzare la minaccia di <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Una macchina da guerra, </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Chas e i suoi coetanei si sfidano a collezionare frammenti di ordigni: La sua, per quanto abbondante (“Undici alette di bombe incendiarie, ventisei proiettili usati, diciotto pezzi shrapnel, compreso uno lungo una trentina di centimetri, e cinquanta bossoli”), non può competere con quella del rivale Boddser Brown (“Un’ogiva di una decina di centimetri, un casco d’aviatore tedesco bello lucido, un mucchio di banconote tedesche con la faccia di Hitler stampata sopra e la foto di una ragazza tedesca con i codini che si chiama Mein Liebling”). Essendo un sognatore che deve sopportare tutto e tutti, Chas ha sviluppato la propensione a sparire nei boschi e quando trova i resti di un Heinkel 111 H, con tanto di mitragliatrice sulla torretta dorsale ancora intatta, non riesce a credere ai propri occhi. Una volta condivisa la scoperta con gli amici, decidono di costruire una fortezza, un avamposto trincerato nei dintorni della casa bombardata di uno di loro, un rifugio per la mitragliatrice (un trofeo esclusivo) e anche per prendere le distanze dai genitori. La vita nei cunicoli prevede l’aggiornamento continuo della struttura, con materiali rastrellati dalle case e dai giardini. Mentre i bombardamenti e le battaglie nei cieli continuano senza sosta, i ragazzi vogliono fare la loro parte e avere un ruolo da protagonisti, nel bene e nel male. Quando catturano un pilota nemico (ferito e stremato) si susseguono i colpi di scena, che Robert Westall sa raccontare con raffinata leggerezza, mettendo in rilievo tutte le follie e gli equivoci della guerra, che non è l’unico conflitto. C’è l’attrito con il mondo degli adulti, che sono provati e limitati, e non riescono a collocare i movimenti dei propri figli. C’è una faida contro i bulli, che imperversano nonostante i tempi drammatici, e non riescono a trovare un proprio posto e c’è una continua fuga dalla realtà, così come sono costretti a viverla, dato che “il mondo intero pareva diviso in due”. Con grande tatto, Robert Westall riesce a incastrare tutto in una trama lineare ed efficace capace di raccontare la deforme brutalità degli effetti della guerra con un punto di vista metaforico pulito e non privo di ironia. Basta e avanza.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-15658067116444278872023-05-18T08:28:00.003-07:002023-05-18T08:30:53.977-07:00Sarah Blau<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhol7mMoOlmwDNBA7FUv0v83LnT_vNUETE1Lo6xIU_RuDDorjCV9yghJlaN2Xmb-iYVTLo9h98GlQ8HZtOediJ3jdceDvOH2HWRz7Dxt2ZXVTmpdiOaNT1MeRv3PgRtVDxHMA5lz1eJTL5KYmXg5wcybfYVap9yFk7r3NVvlUTGWuf59oCVFM9-zSLx/s821/Sarah%20Blau.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="821" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhol7mMoOlmwDNBA7FUv0v83LnT_vNUETE1Lo6xIU_RuDDorjCV9yghJlaN2Xmb-iYVTLo9h98GlQ8HZtOediJ3jdceDvOH2HWRz7Dxt2ZXVTmpdiOaNT1MeRv3PgRtVDxHMA5lz1eJTL5KYmXg5wcybfYVap9yFk7r3NVvlUTGWuf59oCVFM9-zSLx/s320/Sarah%20Blau.jpg" width="209" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Una serie di omicidi sullo sfondo di Tel Aviv. Stop. Tutte donne, vite preziose. Stop. Unico indizio: erano legate da un’antica amicizia, risalente ai tempi dell’università. Stop. È l’unica traccia e la più importante: la forma del thriller pare avere il duplice scopo di assecondare una trama più complessa che ha nel suo obiettivo la maternità, o meglio la decisione di non voler diventare madre a tutti i costi. <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Le altre</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> vogliono essere diverse, a partire dal ruolo riproduttivo assegnato alle donne (in pratica, imposto), e il carattere perentorio della loro scelta lo si intuisce già dal titolo, che condensa le storie di un gruppo di studentesse di teologia che si erano ripromesse di difendere fino all’estremo la propria libertà, e il proprio corpo. Coltivavano in parallelo un’aderenza alle “donne bibliche che non hanno mai avuto figli”, come in cerca di fondamenta culturali per un patto in apparenza come tanti che si stringono in gioventù, ma che poi sono destinati a sfumare, il più delle volte. Sarebbe stato anche il destino che </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Le altre</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> avrebbero incontrato, prima o poi, se solo ne avessero avuto la possibilità perché un serial killer le sta massacrando una alla volta, profanandole con rituali stregoneschi. Sheila Heller, una delle più convinte e ferventi tra </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Le altre, </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">contiene agli occhi degli investigatori (non particolarmente brillanti, bisogna dirlo) tutti gli elementi per essere considerata il prossimo bersaglio, ma anche una serie di note stridenti che potrebbero associarla all’identikit del carnefice. È in una zona grigia dove può succedere di tutto e non fa nulla per impedirlo, anzi, sembra assecondare i suoi interlocutori quasi per inerzia e si ritrova proiettata indietro nel tempo, riscoprendo una volta di più che “il passato tornerà sempre a tormentarci, anche se quello che mi ha appena tirato un colpo in faccia è il futuro”. Tra un estremo temporale e l’altro, comunque sia, “giunge un momento nella vita di una donna in cui l’approssimazione è il miglior alleato” e per Sheila Heller è l’occasione di muoversi a sua volta concedendosi l’opportunità di scegliere, se non altro. Attorno a lei si moltiplicano ombre il più delle volte inoffensive (“Quel che c’è di bello nell’amicizia è che gli amici non devono per forza dirsi tutto, specialmente non la verità, che in genere è brutta e offensiva”), spesso titubanti e maldestre (in particolare le componenti maschili che sembrano quasi tangenti alle “altre”), ogni volta portatrici di perturbazioni e minuscole rivelazioni che conducono Sheila e tutti noi a ripeterci che siamo solo “la somma di ricordi ed esperienze, e nel momento stesso in cui siamo portati a riprendere in considerazione informazioni importanti che giacciono incontestate nelle profondità della coscienza, il nostro corpo, tutto il nostro essere, deve riallinearsi di conseguenza”. Su questi tratti in chiaroscuro, Sarah Blau costruisce tutta la trama,</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">che è una falsa pista adatta a prendere per mano il lettore verso uno snodo più cruciale, cioè il ruolo definitivo della donna nella consapevolezza di una decisione capitale, quella di diventare madre, oppure no. Senza dubbio, </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Le altre</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> ruota attorno a quel cardine, ma in un angolo, ancora più intimo, c’è la sensazione che si sia qualcosa di sfuggente nelle nostre scelte che non riusciamo a controllare se non per fortuna, o per caso. Stop.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-21568924179912688162023-03-28T02:12:00.005-07:002023-03-28T02:13:37.025-07:00August Strindberg<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj4QA04Btnez00G0jR68HkSM3-TygzX_Fz_WvFTDn3Npr47Oh2pHn_K0LwX81VvkUFDW686PAoTMBpophGX37hB2d0qS3Z2BA5vEuTJaQUrY7bzkWi2xV4T7s0SGjtMNP9pcz7M_r2G6NHFZF_RsweQ8xOt3cKEOcgCdawGAja2SBT246-GdSr-HbUS/s835/August%20Strindberg.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="835" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj4QA04Btnez00G0jR68HkSM3-TygzX_Fz_WvFTDn3Npr47Oh2pHn_K0LwX81VvkUFDW686PAoTMBpophGX37hB2d0qS3Z2BA5vEuTJaQUrY7bzkWi2xV4T7s0SGjtMNP9pcz7M_r2G6NHFZF_RsweQ8xOt3cKEOcgCdawGAja2SBT246-GdSr-HbUS/s320/August%20Strindberg.jpg" width="205" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Quando arriva in una piccola e bucolica cittadina svedese l’avvocato Edvard Libotz è “un uomo intelligente, di mente aperta. Già alla lettura di un caso complicato poteva tratteggiarne una prima relazione in tribunale. Sempre riflessivo e sereno, si teneva al sodo e non consentiva mai all’avversario di perdersi in chiacchiere e giri viziosi”. Le sue doti dovrebbero essere una garanzia ed è accolto dall’anfitrione naturale, che è Askanius, l’oste per antonomasia, comprensivo e indulgente, colto e assertivo, capace di condividere con i clienti confidenze e saggezze, e qualche bicchierino di troppo. Eppure, è come se un sasso fosse arrivato all’improvviso al centro di uno stagno immobile da anni. Se in Libotz c’era “anche un desiderio di riconciliazione che lo induceva a sorvolare sui tranelli”, nel posto in cui è finito i conflitti locali portano i segni di una decadenza provinciale dove i peccati non si scontano mai. L’innocenza di Libotz ha qualcosa di ambiguo perché lo porta in continuazione a vivere situazioni imbarazzanti, a partire dal sofferto rapporto con il padre e con il resto della famiglia. Una solitudine asfissiante anche quando s’innamora di Karin, la cameriera di Askanius, eppure, anche se con grande fatica riesce a esternare i suoi sentimenti, con un fidanzamento ufficiale, tutto finisce in una cappa di incomunicabilità, entre tra gli uomini si parla, e fin troppo. Tjärne e Libotz conversano “con fervore, come due naufraghi su un’isola deserta. Di sciocchezze, di niente, solo al fine di udire una voce. Per paura d’inciampare nei tristi trascorsi, evitavano tutto ciò che riguardava le loro persone; facevano i brillanti per non andarsene per la propria strada, in solitudine; si addolcivano quella siesta; mostravano i loro lati più belli e più nobili”. Gli eventi si moltiplicano e le relative dinamiche colpiscono Libotz: con l’ingenuità e i limiti con cui si accompagna, tra due, tre fuochi diversi più che un capro espiatorio, sembra una vittima collaterale ante litteram. Prima si vede “citato in giudizio per diffamazione” dal commissario Sjögren, padre del suo infedele e truffaldino praticante e lì comincia “un processo come molti altri, dove il colpevole attaccava non solo l’innocente ma persino il danneggiato”, con un non raro capovolgimento di ruoli. D’altra parte Askanius abbandona la sua trattoria e apre un ristorante di lusso, di fronte a quello rinomato che esiste già. La scontro con la concorrenza non dura molto: per la legge del contrappasso entrambi vengono superati dal “monopolio”, un’entità misteriosa ma non così irreale, che impone il Grand Hotel, la ferrovia e tutte le pressioni del progresso che <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Il capro espiatorio </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">lascia uscire dall’ombra per stravolgere le psicologie dei protagonisti. August Strindberg è un cesellatore che, con tocchi raffinati, definisce i personaggi pagina dopo pagina, seguendone l’evoluzione all’interno della storia e, ancora di più, della loro mutevole personalità. Libotz alias </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Il capro espiatorio</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> è comunque al centro dell’attenzione, ma attorno a lui si sviluppa, come scrive Franco Perrelli che introduce e traduce Strindberg con grande perizia, “un’onesta testimonianza sull’essere uomini”, con la dimensione appurata del classico.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-29298176951888518372023-03-16T22:50:00.006-07:002023-03-16T22:52:28.699-07:00J. G. Ballard<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhg-zRxANrlCJ6iqX5JOVWGdNLDAgU6zaHfM7Q3aGDLrvuWvxf3yBYnG2sTSOruCPAUFhzuHvCyo3-Y4-pWGJpHYGLPxW2RU6Pu5c0Fd6D3mJwUrMQGdQQ8xH7FSpeNjLdIGn9Jr-1CK_Bllaq69DdDGp2UJBICl8UcU7XjFw6p7izUf7MU8xm470ST/s824/J.%20G.%20Ballard.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="824" data-original-width="560" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhg-zRxANrlCJ6iqX5JOVWGdNLDAgU6zaHfM7Q3aGDLrvuWvxf3yBYnG2sTSOruCPAUFhzuHvCyo3-Y4-pWGJpHYGLPxW2RU6Pu5c0Fd6D3mJwUrMQGdQQ8xH7FSpeNjLdIGn9Jr-1CK_Bllaq69DdDGp2UJBICl8UcU7XjFw6p7izUf7MU8xm470ST/s320/J.%20G.%20Ballard.jpg" width="217" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Anche in questa antologia di articoli dal titolo altisonante, ma non fuori luogo, Ballard si conferma lucidissimo, puntuale e, il più delle volte, profetico. Spesso si tratta di recensioni di libri o film che usa come trampolino per le sue digressioni che sono sempre acute, sia che si tratti di discutere dei diari di Andy Warhol, delle luci e delle ombre di Edward Hopper, dell’immaginario di Dalì o di <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">Guerre stellari</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">. In </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">Fine millennio: istruzioni per l’uso</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;"> il rapporto con la fantascienza è una costante che riemerge con regolarità e non soltanto per i trascorsi di Ballard, ma proprio perché la considera esplicitamente “l’ultima forma letteraria prima della morte della parola scritta e del definitivo dominio dell’immagine. La fantascienza è stata una delle poche forme di narrativa moderna che abbia esplicitamente affrontato il tema del cambiamento (dal punto di vista sociale, tecnologico e ambientale), e non c’è dubbio che sia stata la sola narrativa a inventare miti, sogni e utopie sociali”. Ridisegnare “il tempo, lo spazio e l’identità” è forse il collegamento sotterraneo che unisce tutti i saggi qui raccolti anche nell’estrema eterogeneità dei temi, che comprendono anche ritratti di Nancy Reagan e consorte (imperdibili), Einstein e Freud, Walt Disney e la Coca-Cola, scampoli di autobiografia “da Shangai a Shepperton”. Le divagazioni sono in cima all’ordine del giorno perché, come dice Ballard, quasi per scusarsi, “gli scrittori, è ovvio possono far danzare quanti angeli vogliono sulla capocchia di uno spillo, e tirar fuori un intero universo da un guscio di noce o da una sola stanza”. Tra gli esempi a cui si dedica scorrono Francis Scott Fitzgerald, Henry Miller e Williams Burroughs con cui si ritorna, inevitabilmente alla fantascienza ricordando “le sue estrapolazioni, anche le più incredibili, sono sempre messe alla prova in un quadro emotivo o umano di qualche genere”. Da lì si intrecciano le previsioni di Ballard che, già riflettendo sull’incidenza dell’automobile sulle nostre vite, rivelava un raro sguardo capace di andare oltre l’immediato e di prefigurare con decenni di anticipo “la trasformazione della realtà in uno studio televisivo, nel quale potremo interpretare a un tempo il ruolo di pubblico, di produttore e di star”. Facoltà di preveggenza così precise non sono innate o fortuite, anzi, secondo Ballard “ci sono ragioni per credere che la nostra comprensione del futuro sia strettamente associata con le origini della parola, e che la ricostruzione immaginaria degli eventi necessaria per farci riconoscere il passato sia anch’essa legata all’invenzione del linguaggio” e che, di conseguenza, “il futuro fornisce una chiave per il presente migliore di quella che offre il passato”. Fedele alla sua vocazione apocalittica </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">Fine millennio: istruzioni per l’uso </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: none; text-align: justify;">trova proprio in quell’intersezione temporale, e nell’imminenza del fatidico 2000, tutta una gamma di valutazioni e così le riassume ad uso e consumo dei posteri: “Un inferno valido è un inferno che contempli una possibilità di redenzione, anche se questa non viene poi attinta, insomma le prigioni di un’architettura della grazia le cui guglie puntino a un paradiso di qualche tipo. Ma gli inferni istituzionali del nostro secolo si arriva con biglietti di sola andata, timbrati Nagasaki e Buchenwald, mondi di orrore terminale ancora più definitivi della tomba”. Non manca anche l’augurio di Ballard, che merita di essere riscoperto e riletto spesso: “Vorrei vedere più idee psicoletterarie, più concetti metabiologici e metachimici, più sistemi temporali individuali, più psicologie e spazi-tempi sintetici, più semimondi cupi come quelli che affiorano nei dipinti degli schizofrenici, insomma una poesia speculativa completa, una fantasia della scienza”. Un futuro tutto da scrivere.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-41695901949183250672023-03-14T01:07:00.003-07:002023-03-14T01:08:03.911-07:00John Berger<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: white; color: #050505; text-align: justify;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6j2UVp87PXxAjC0Y4fsqme8HO1iS1WRNLXMTzN1VcCpoODHfwoeo_YCeF9lhfTTIgzwdQeZv2qKNn5mwbKQN3mLtBpnbgi2xmVnyd5M4uDlfn21o1sJD4WMsrWShMbfniloC6A11HoKXJQ3cbgYa7UyJ_RokLiHSogYiQGGsXdhlcZJFz97eOmshW/s3887/John%20Berger.jpeg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="3887" data-original-width="2407" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6j2UVp87PXxAjC0Y4fsqme8HO1iS1WRNLXMTzN1VcCpoODHfwoeo_YCeF9lhfTTIgzwdQeZv2qKNn5mwbKQN3mLtBpnbgi2xmVnyd5M4uDlfn21o1sJD4WMsrWShMbfniloC6A11HoKXJQ3cbgYa7UyJ_RokLiHSogYiQGGsXdhlcZJFz97eOmshW/s320/John%20Berger.jpeg" width="198" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Siamo noi che guardiamo gli animali o sono gli animali che ci guardano? È da questo dilemma che comincia l’indagine di John Berger Sul guardare. C’è un motivo sostanziale nel rapporto uomo e animale e l’atto di guardare lo definisce perché “gli animali entrarono nell’immaginario dell’uomo come messaggeri e come promesse” e a differenza degli animali “l’uomo guarda sempre attraverso la propria ignoranza e la propria paura”. È un punto di partenza insolito, ma non anomalo per addentrarsi tra i principi dell’arte, della pittura, della fotografia e gli effetti dell’osservazione, o meglio del guardare, in generale e in particolare proprio perché “avviene a volte che la visione del singolo riesca a sopravanzare le forme sociali della cultura esistente, ivi compresa la forma sociale dell’arte. Quando ciò avviene, le opere nate da una tale visione vivono in una solitudine storica, oltre che personale”. John Berger riflette sugli artisti primitivi, ovvero outsider come il Postino Cheval che da una pietra costruì un sogno, su Bacon, La Tour, Paul Strand, Walker Evans e per ogni artista ha un modo di vedere e valutazioni che vanno ben oltre gli aspetti estetici. È un’attitudine a confrontarsi con l’opera d’arte che tiene in considerazioni tutte le variabili e vale per la fotografia (“Proprio perché conserva l’immagine di un evento o di una persona, la fotografia è da sempre collegata all’idea di storia”) come per la pittura (“Nessun contorno, nessun vuoto, nessuna asperità nei contorni tradisce un’esitazione nell’intensità della pittura. L’atto del dipingere è inseparabile dalla sofferenza patita. Poiché nessuna parte del corpo sfugge al dolore, la pittura non può in nessun punto cedere in precisione. La causa del dolore è irrilevante, ciò che conta è la fedeltà della pittura. Questa fedeltà nasceva dall’empatia d’amore”) o la scultura, vista attraverso le opere di Rodin o Giacometti, così come per ogni altra espressione visiva fino ad arrivare a Walt Disney. L’attenzione al contesto sociale e geografico è sempre rilevante come è evidente nel capitolo dedicato a Ralph Fasanella i cui dipinti “parlando di alcune lezioni che l’aspetto della città impartiva quasi fossero leggi”. Le affollate geometrie di Fasanella, che rileggono New York secondo una “prospettiva ambulante” (John Berger dixit) ci ricordano che “una città moderna non è solo un luogo; essa è anche, di per sé, molto prima di essere raffigurata in un quadro, una serie di immagini, un circuito di messaggi”. È in quel momento che <i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">Sul guardare</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> supera la fenomenologia della critica dell’arte e si rivolge all’elaborazione del vedere in sé, liberandosi dagli schemi di “ciò-che-sta-per-accadere, ciò-che-si-deve-guadagnare svuota ciò-che-è”, e puntualizzando i significati più profondi della percezione dell’immagine. I contorni spaziali delle figure rimandano a coordinate temporali e secondo John Berger “il tempo narrato diventa tempo storico quando è assunto nella memoria sociale e dall’azione sociale. È necessario che il tempo costruito e narrato rispetti il processo della memoria che spera di stimolare”. È un gesto che “implica un atto di redenzione” che è un’intima rivoluzione perché “all’improvviso un’esperienza di osservazione disinteressata si apre e dà vita a una felicità che riconoscete immediatamente come vostra”. Da tenere sempre a portata di mano.</span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-91089190508097251802023-03-08T02:48:00.005-08:002023-03-08T02:53:11.624-08:00Jon Savage<p class="p1" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); background-color: white; font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span class="s1" style="font-kerning: none;"><span style="font-family: georgia;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-style: italic; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi1nqSUrh0ENOpK2UJigfn85mA5EIONpeUzr7SeooH2uqBWdJ65lg41eLybPUcy25Qldm3aZvbB8l_CsDg3CssInM7Z7S-o_Hy5EqPWSuWydmb44_BcOdZNSmD5YcRGZIV2_2_UEIO1JQV2OcCh8Awy0TgrXzD_mc2iw8_Koh4PBBIrC-lzTi64n1bp/s828/Jon%20Savage.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="828" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi1nqSUrh0ENOpK2UJigfn85mA5EIONpeUzr7SeooH2uqBWdJ65lg41eLybPUcy25Qldm3aZvbB8l_CsDg3CssInM7Z7S-o_Hy5EqPWSuWydmb44_BcOdZNSmD5YcRGZIV2_2_UEIO1JQV2OcCh8Awy0TgrXzD_mc2iw8_Koh4PBBIrC-lzTi64n1bp/s320/Jon%20Savage.jpg" width="207" /></a></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><i>Il sogno inglese </i>comincia proprio bene con Churchill che sfoggia un taglio di capelli mohicano bello colorato. È un’acconciatura che appare con una certa frequenza nella storia e ogni volta identifica tribù particolarmente turbolente. Lo erano i nativi sulle rive dell’Hudson, così come i paracadutisti della 101ª divisione aviotrasportata, conosciuti come Screaming Eagles che si lanciarono sulla Normandia e resistettero a Bastogne. La cresta è uno dei simboli ricorrenti del punk e dato che Nick Kent, partecipe e transfuga della prima ora, l’avrebbe chiamata “la politica dell’apparenza” pare giusto applicarsi partendo da lì, dallo stile. La vivisezione del punk (e dei Sex Pistols) e operata da Jon Savage è un lavoro oculato che lo colloca all’interno di una realtà, quella della Gran Bretagna, tutta da decifrare (e spesso insondabile), ma che poi è destinato a diventare “simbolo globale della disaffezione giovanile, della ribellione, del puro e semplice problema. Dopotutto, se nulla viene contestato, nulla potrà cambiare”. Il background internazionale attingeva al “mare delle possibilità” di Patti Smith e a buchi di New York dove “il procedimento di riciclaggio dei rifiuti” aveva resuscitato il rock’n’roll attraverso Ramones, Television, Talking Heads e, prima di tutti, New York Dolls. Nell’emergere impetuoso di “una cultura sotterranea con riti incomprensibili per tutti gli adulti”, Jon Savage sa trovare la giusta collocazione per ciascun personaggio coinvolto, in un modo o nell’altro: l’improvvisata sartoria di tagli e graffi di Richard Hell è diventata con Vivienne Westwood e Malcolm McLaren l’idea di vestire di nuovo un mondo decadente, attribuendo alle mille motivazioni del punk quasi “un fine morale”. I Sex Pistols arrivarono come un Frankenstein di contraddizioni: si scontrarono con l’industria discografica eppure la scossero dal torpore a cui si era abituata, più venivano censurati e più diventavano un fenomeno, negavano il futuro e nello stesso tempo lo inventavano perché come disse Joe Strummer, uno che se ne intendeva: “Erano di un altro secolo”. Il sogno inglese, mai titolo è stato più appropriato, rende attuale tutta l’esperienza dei Sex Pistols e, per estensione, del punk, inteso come “uno stile di vita devoto e appassionato che ignorasse le convenzioni ortodosse, rispettando allo stesso tempo un rigido codice di comportamento”. È più la storia di una mutazione, che di una rivoluzione: assecondando i principi di azione e reazione secondo Jon Savage “gli stili pop divennero simboli di branco e tribù, dunque non qualcosa da esibire per una stagione, bensì un modo di vivere, un mezzo per costruirsi un’identità fuori da una struttura di classe sovente immobile e spietata”. Le vicende dei Sex Pistols, narrate come struttura portante del <i>Sogno inglese</i>, avvolgono e si intersecano con quelle dei Clash (“Il punk definito per sempre come realismo sociale”), delle Slits, degli Adverts, dei Buzzcocks, dei Jam, tra i paesaggi ballardiani di Londra e Manchester dove Jon Savage ricorda che “chi fa spettacolo è interessante solo in funzione delle emozioni che provoca, o delle situazioni che catalizza: è il pubblico a conferirgli il potere che ha”. La placida assuefazione al pub, alla BBC e alla monarchia venne travolta: “il punk annunciò se stesso come un presagio” e si rivelò una sferzata tale che lo “scarto culturale” ha assunto le dimensioni di una vera e propria faglia all’interno della cosiddetta civiltà occidentale. È stato possibile solo perché, come ha detto uno dei protagonisti, Jamie Reid: “il punk era verità dissimulata dall’inganno”. Per spiegare il suo paradosso, <i>Il sogno inglese</i> (per l’occasione ampliato, aggiornato e arricchito rispetto alla prima edizione del 1991) ci mette settecento pagine che, da Sid Vicious a Paul Virilio, dalle rivolte alle clausole contrattuali, da Bob Marley alla Thatcher, non nascondono nulla e danno al punk il posto che si merita, in mezzo alla strada, da qualche parte, ovunque ci sia bisogno di una bella scossa<i>.</i></span></div><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-17335526578652261652022-12-05T03:42:00.003-08:002022-12-05T03:45:32.871-08:00Anna Kańtoch<p style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: white; color: #484848; text-align: justify;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; font-size: 24px; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEifOsPJmC3SlqQxUyuNLECv2DOEjs-9GkHo-tJSNfggL-3inRTLEOgR_-wsUhHyQmXXXS6J4YFKyvoVps6HHHIYrwjIwtvDTI2WnyXwsEDv1pr4TwnkxFmOdjwD14bjy6sx8rWzN3CTxNW3KQCPyUMVFYNC_Q9P89ctZcduYFIVmnxGUpFCfLd5uNmD/s821/Anna%20Kan%CC%81toch.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="821" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEifOsPJmC3SlqQxUyuNLECv2DOEjs-9GkHo-tJSNfggL-3inRTLEOgR_-wsUhHyQmXXXS6J4YFKyvoVps6HHHIYrwjIwtvDTI2WnyXwsEDv1pr4TwnkxFmOdjwD14bjy6sx8rWzN3CTxNW3KQCPyUMVFYNC_Q9P89ctZcduYFIVmnxGUpFCfLd5uNmD/s320/Anna%20Kan%CC%81toch.jpg" width="209" /></a></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">La protagonista di </span><span style="font-family: georgia;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Buio</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;"> è una donna che comprende molto bene la condizione aggrovigliata dei suoi pensieri: “Noi sembriamo tutti un po’ fuori luogo, sempre un po’ maldestri, sudaticci e trasandati, è già un po’ che ho capito che si può riconoscere da queste cose. Invece loro, gli altri, emanano sempre una pittoresca eccellenza, come se sbucassero dallo schermo del cinema”. Personaggi, interpreti, ed è già una separazione nitida, frutto di una consapevolezza sorprendente, che si manifesta approfondendo la distinzione con il resto del mondo, quello che si presume viva nella normalità: “Hanno avuto bisogno di una forma, che gli abbiamo dato noi, e loro ci hanno costruito dentro qualcosa che noi non potremo mai comprendere”. Questa presa di posizione si applica alla perfezione al fratello Franciszek e alla moglie Wanda che la ospitano, dopo la sua degenza in una clinica per disturbi mentali, ma che sono assenti e freddi. Lei, senza nome e con una fragile identità, deve accontentarsi: “Sto vivendo come gli altri, senza pensare di essere così diversa, ma ho visto quel che ho visto”. Seguirla ne </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Buio </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">significa affondare nelle ombre dell’infanzia: “Quanti ricordi. Il passato non mi è mai vicino, ma ora ce l’ho qui a portata di mano, bisogna solo volerlo vedere. È come togliere la luna dal cielo, c’è solo da diventare di nuovo bambini e credere di poterci riuscire”. È</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;"> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">lì che si sdoppia perché a sua volta </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Buio</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;"> è un luogo nella Pomerania, ma è anche una meta irraggiungibile della mente dove può succedere di tutto, anche la ricomposizione di un delitto, di una tragedia, di un mistero: “Mi volto verso un’eco di passi leggeri. Dietro di me ci sono io bambina, col mio vestito estivo, i piedi scalzi sporchi di fango e aghi nel bosco”. Nel </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Buio</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">, i segreti si incrociano attorno a Jadwiga Rathe e alla sua inspiegabile fine. Essendo un’attrice shakespeariana, viene spontaneo pensare all’</span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Enrico IV </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">quando si dice che “i pensieri, schiavi della vita, e la vita, pagliaccio del tempo, e il tempo, che contiene tutto il mondo, devono fermarsi”. Sarebbe l’ideale, ma gli elementi naturali e soprannaturali formano l’ibrido vischioso in cui il doppelgänger della protagonista si muove in cerca del suo destino. </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Buio</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;"> diventa davvero nebbia e tenebra ed è rivelatore l’inserimento degli amati versi tratti da </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Calamus</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">, una delle sezioni più intense delle </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Foglie d’erba</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;"> di Walt Whitman. La stessa origine del titolo, che riprende il nome di una pianta aromatica che ha il suo habitat nelle paludi e l’essenza colma di contraddizioni, si associa ai contrasti tra le luci (lontane) di Varsavia e le foreste impenetrabili, le visioni oniriche e le asperità terrene, due guerre mondiali (è il 1935, ma c’è un continuo feedback temporale verso il 1914), altrettante invasioni (quella nazista prima e quella sovietica poi) che si affastellano tra passato e futuro. Nel </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Buio </i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; none: #484848; text-align: justify;">è tutto doppio e il senso di Anna Kańtoch per il tempo fluttua avanti e indietro assecondando gli estremi e affrontando un livello dopo l’altro inoltrandosi in aree oscure dove la psicologia è appena sufficiente a definire un campo d’indagine, di sicuro abbastanza complesso da richiedere ben altre misure. Un corto circuito tra l’infanzia e l’incombenza dell’età adulta (“La cosa più importante è che quanto più sbiadiscono i ricordi adulti, tanto più vividi si fanno i ricordi dell’infanzia”), ha bisogno di un altro tipo di presenza, e di coscienza. Questa è la frattura che </span><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;">Buio</i><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(72, 72, 72); background-color: none; color: #484848; text-align: justify;"> prova a comporre, la distanza che bisogna compiere dato che “l’essere adulti dev’essere proprio questo, un tocco freddo e liscio, che attira e terrorizza al contempo”. La scrittura di Anna Kańtoch è acido sul velluto, la carezza di un fantasma che lascia brividi di gelo, un volto deformato da un specchio, un silenzio pieno di enigmi perché “è proprio questo il nostro problema, non possiamo fidarci di ciò che sentiamo o vediamo”. Si chiama sensibilità, ma il più delle volte è considerata una malattia.</span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-24139957778181592022022-10-25T02:16:00.010-07:002022-10-25T02:22:07.662-07:00J. G. Ballard<p style="text-align: justify;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"></i></p><div class="separator" style="clear: both; font-family: Georgia; font-size: 24px; text-align: center;"><i style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjb5utVB7zGvvc7okU2Cvg6NDtGFWFbuEK6EbUFT2fv5NndeIFLyw47m3sNnGfPYwwB5UJ2L9dDDePCPlHemG5PpF7PaT-U3jG__xGPIY4PMaj8xvS4Ja4hTqhd2l5Mwd0x_mp9Vg67XA4SPbTNkKy2FIluAAv917oEh41C_utg0zSug-5j5-5liIZG/s315/J.G.%20Ballard.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="315" data-original-width="200" height="315" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjb5utVB7zGvvc7okU2Cvg6NDtGFWFbuEK6EbUFT2fv5NndeIFLyw47m3sNnGfPYwwB5UJ2L9dDDePCPlHemG5PpF7PaT-U3jG__xGPIY4PMaj8xvS4Ja4hTqhd2l5Mwd0x_mp9Vg67XA4SPbTNkKy2FIluAAv917oEh41C_utg0zSug-5j5-5liIZG/s1600/J.G.%20Ballard.jpg" width="200" /></a></i></div><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"><div style="text-align: justify;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none;"><span style="font-family: georgia;"><i>I miracoli della vita</i></span></span><span style="font-family: georgia; text-align: left;"><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> avvengono in un arco temporale e spaziale che comincia e finisce a Shangai, dove Ballard è nato e cresciuto. È lì che comincia tutto ed è chiaro fin dall’inizio: “Il mio coinvolgimento con la scrittura risale alla mia infanzia, verso la fine degli anni trenta, e fu forse una risposta alla grande tensione che sentivo fra gli adulti in mezzo a cui vivevo”. A Shangai, come spiega Ballard, “tutto era possibile, e si poteva vendere e comprare qualsiasi cosa. In un certo senso, si potrebbe dire che era un set cinematografico, ma quel tempo a me pareva reale, e io credo che una buona parte della mia narrativa sia stata un tentativo di evocare quell’atmosfera in un modo diverso dal semplice ricordo”. Tra </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; text-align: justify;"><i>I miracoli della vita</i>, </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">rientrano, nella prima e più consistente parte, la descrizione dei famigliari, appartenenti allo stesso secolo, ma a un’altra epoca, l’infanzia nel campo di prigionia di Lunghua e le prime associazioni letterarie con Hemingway e Steinbeck, scoperti grazie ai soldati americani. Tutti elementi che conducono Ballard alla considerazione che “a Shangai il fantastico, che per la maggior parte delle persone sta dentro alla propria testa, per me stava fuori, lo vedevo ovunque mi giravo, e adesso penso che lo sforzo principale che facevo da ragazzo fosse quello di cercare, in tutta quella finzione, la realtà. Ma in qualche modo continuai a farlo anche quando, dopo la guerra, arrivai in Inghilterra, in un mondo che era quasi troppo reale. Da scrittore, ho trattato l’Inghilterra come se fosse una strana finzione, e il mio compito era quello di tirarne fuori la verità, come la mia controparte da bambino faceva con le guardie d’onore fatte di gobbi e i templi senza porte”. C’è un intervallo importante, quando Ballard si arruola nella Royal Air Force e viene trasferito in Canada per l’addestramento. Nel bel mezzo del nulla, una prima, fondamentale epifania: “Interiorizzavo la fantascienza, cercando la patologia che stava alla base della società dei consumi, del paesaggio televisivo e della corsa all’armamento nucleare, un vasto e inesplorato continente di possibilità narrative”. Nel tratto autobiografico il tono e la forma sono molto più lineari che nei romanzi e sono anche più sciolti, quasi colloquiali, persino generosi nel descrivere le sue sensazioni. Lo shock del ritorno a Londra lo spinge a convincersi a “diventare uno scrittore specializzato nel prevedere e, se possibile, provocare il cambiamento. Il cambiamento, pensavo, era ciò di cui l’Inghilterra aveva disperatamente bisogno: lo penso ancora adesso”. È una percezione acuta, che si distinguerà in tutta la sua narrativa: “Il cambiamento era nell’aria e influenzava, nel bene e nel male, la psicologia della nazione. Il cambiamento era ciò di cui scrivevo, soprattutto le tendenze più riposte dei mutamenti che già cominciavano a rivelarsi nel comportamento della gente. Persuasori invisibili stavano manipolando la politica e i mercati del consumo, influenzando abitudini e presupposti in un modo che ancora pochi comprendevano”. Detto questo trovano rilevanza la formazione letteraria, compresa l’importanza di Freud, i legami con Michael Moorcock, Kingsley Amis, Eduardo Paolozzi e Chris Evans, la perdita della moglie e il rapporto con i figli, e, dettaglio non trascurabile, i due anni a studiare anatomia “tra i più importanti della mia vita”. La conseguenza diretta è che </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; text-align: justify;"><i>La mostra delle atrocità</i></span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> e </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; text-align: justify;"><i>Crash</i> </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;">sono i titoli più in evidenza tra </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; text-align: justify;"><i>I miracoli della vita</i></span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> e </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; text-align: justify;"><i>L’impero del sole</i></span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> è un ricordo che non muore mai come lo stesso Ballard suggerisce, concludendo che “per certi versi tutta la mia narrativa è la dissezione di una patologia profonda di cui fui testimone a Shangai, e poi nel mondo postbellico, dalla minaccia di guerra nucleare all’assassinio del presidente Kennedy, dalla morte di mia moglie alla violenza che ha puntellato la cultura dell’intrattenimento negli ultimi decenni del secolo. Ma può essere anche che quei due anni nell’aula di dissezione fossero un modo inconscio, per me, di mantenere viva Shangai con altri mezzi”. L’ammissione trasforma </span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; text-align: justify;">I miracoli della vita</span><span style="-webkit-text-stroke-color: rgb(5, 5, 5); background-color: none; color: #050505; text-align: justify;"> in una specie di testamento spirituale che Ballard rende esplicito quando dice: “Mi ero arrampicato sino a un miraggio, avevo accettato che, a modo suo, esso fosse reale, poi ci ero passato in mezzo ed ero uscito dalla parte opposta”. Lucidissimo, fino alla fine<i>.</i></span></span></div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-314395503108458630.post-29262803650049184872022-10-23T23:43:00.004-07:002022-10-23T23:44:21.532-07:00Abdourahman A. Waberi<p class="p1" style="-webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span class="s1" style="font-kerning: none;"><span style="font-family: georgia;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: georgia;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjULWXy8Jy4joQPd9qcvsxSZ8_yDbKvahwbT0x5hffL0PLyD1WbbGRq-FreIrpB4IYJ_R-kzgoWYJ8apX2l6vwMPBJ8nUzKcDHNDIyiZWCgSqSl-hOYYb_4SpvKtg7MAD47gG0kB4ko1R3tSkq3QfdfNEd8li0-t1z8UMHQSCPHz0unV-_3O4hQsznc/s4900/Abdourahman%20A.%20Waberi%C2%A0.jpeg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="4900" data-original-width="3471" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjULWXy8Jy4joQPd9qcvsxSZ8_yDbKvahwbT0x5hffL0PLyD1WbbGRq-FreIrpB4IYJ_R-kzgoWYJ8apX2l6vwMPBJ8nUzKcDHNDIyiZWCgSqSl-hOYYb_4SpvKtg7MAD47gG0kB4ko1R3tSkq3QfdfNEd8li0-t1z8UMHQSCPHz0unV-_3O4hQsznc/s320/Abdourahman%20A.%20Waberi%C2%A0.jpeg" width="227" /></a></span></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">“Tutti gli inizi sono poetici, il seguito già meno” scrive Abdourahman A. Waberi al centro di questa intensa polifonia della guerra e dell’esilio, due ferite che, nei secoli, hanno sottolineato a lungo la vita dell’Africa. Bisogna proprio addentrarsi in <i>Transit </i>per comprendere fino in fondo la sua intuizione, che è anche una lettura specifica del titolo. Il luogo d’elezione (e di partenza) del romanzo è Gibuti, una vastità di deserto che si affaccia sull’oceano, ma i protagonisti invisibili di <i>Transit</i> (Bashir e Harbi) si ritrovano nella terra di nessuno dell’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi. Dall’incontro fortuito e del tutto casuale (i due in comune hanno soltanto la vaga cognizione dei profughi e l’amarezza dell’esodo) si dipanano e si intrecciano le reciproche storie, che affondano tanto nella drammatica realtà dell’Africa in fuga quanto nelle radici della cultura orale e nomade. Per entrambi l’unica consapevolezza è che “ora come ora siamo in sospeso su questa terra senz’altra promessa che quella dell’umiliazione, in compagnia di tutti gli altri rifiuti del pianeta, allo stesso tempo carnefici, vittime e testimoni”. Nella condizione estrema di passaggio si accorgono che “siamo e rimaniamo in definitiva dei granelli di sabbia arenati nel deserto di un altro. Nessuno che ci insegua e nessun segno di ospitalità all’orizzonte. Non abbiamo nemmeno più le nostre stuoie sulle quali dormivamo dopo aver sollevato il telo che funge da parete divisoria tra l’angolo dei bambini e quello dei genitori. Ci siamo lasciati dietro di noi le nostre storie, le nostre melodie, i nostri testi di magia e i nostri antenati. Il pericolo che incombe su di noi è questo: se si vive esclusivamente nel presente si rischia di essere sepolti con il presente”. Abdourahman A. Waberi realizza così un romanzo a più e più voci, architettando strutture ardite ma anche estremamente fluide, grazie a una lingua e a un ritmo tambureggiante, che avvince e sorprende: “Tutti quanti si stordiscono di dicerie, dicono: sì sì ci vendicheremo questa volta qui, per non pensare ai loro guai. Le nostre pance sprigionano un rumore d’acqua in piena, un rumore di torrente che scorre sulle pietre. Come se divorassimo a quattro palmenti il mango amaro che fa schifo persino agli insetti e alle formiche”. <i>Transit</i> offre uno sguardo privo di retorica, denso di argomenti, con un taglio narrativo fresco e a tratti sorprendente sommando le forme ancestrali di racconto (“Tutti questi sortilegi si agitano nella bocca dei nostri cantori, i barometri dell’opinione pubblica che temono il silenzio del corpo. La lingua del fantastico li spinge a spiegare i misteri nascosti della natura e dell’umanità riunite”) a cui si alterna la musica occidentale, dal blues al rock’n’roll. Lungo queste particolari vie dei canti il tormento del conflitto, l’anelito all’indipendenza (“Non dimentichiamo che noi non abbiamo mai accettato la dominazione del colonialista. Anche davanti al fatto compiuto e alla legge del più forte, noi resistevamo in sordina, in segreto”), la mera sopravvivenza si legano alla memoria è non è un caso che il più giovane tra i personaggi di <i>Transit</i>, Abdo-Julien, affermi: “Gli erranti, gli apolidi, che sono i veri e propri creatori, come i nomadi del deserto, servono solo a una cosa almeno quaggiù in terra. Sono le nostre guide, di questo il nonno è convinto, quelle che ci indicano i sentieri da percorrere per la traversata dell’esistenza. Ci raccontano inoltre, e con innumerevoli dettagli, il loro carosello affettivo”. È così Abdourahman A. Waberi ritrova “il potere di trasformare in parole il canto più profondo della terra, diffidando degli spiccioli di parole di tutti i giorni” e permeando <i>Transit</i> di una forza inequivocabile.</div></span><p></p>Marco Dentihttp://www.blogger.com/profile/00641090032369304676noreply@blogger.com0