mercoledì 26 settembre 2018

Anna Ruchat

Una tensione non comune pervade le storie allineate in Gli anni di Nettuno sulla terra: i racconti tendono sempre a una fine. Può essere il crepuscolo dell’estate verso l’autunno, un anno che se ne va sfumando in un altro, la domenica sera, pensando che “domani non è lunedì, ma ciò che mi stupisce è quel finalmente detto con aria sorniona, come una confidenza, gli occhi stretti, ma luccicanti, quel finalmente che sembra una promessa: domani sarà qualcosa di diverso da questa infinita domenica che è la vita nelle sue zone estreme. O forse si è solo confuso con i santi e questa monotonia di gesti, questo ripetersi di volti che con lui invecchiano, sono davvero la barra di sostegno di un’esistenza che procede senza fretta, con grandiosa, malinconica ironia, verso la sua conclusione”. L’atmosfera condivisa è in bilico, tra una conclusione attesa, prevista e una piega che ha “qualcosa di inevitabile”, come scrive Elio Grasso in una postfazione ricca di spunti. Le storie sono brevi e seguono un itinerario nel tempo ininterrotto, che è lineare rispetto ai dodici mesi (identificati attraverso altrettanti racconti, nella sequenza corretta del calendario) ma eccentrico nella datazione degli anni, che si intravedono nelle notizie riportate a piè di pagina, all’inizio di ogni racconto. Hanno una funzione specifica, meglio descritta da Elio Grasso: “La pietà d’essere anonimi trova sostegno negli episodi storici, quanto vicini o lontani non si può sapere, ma che vergano tutti in una sostanza solenne contratta come se l’intero spazio esistente venisse curvato su se stesso dall’enorme massa di Nettuno”. Il tempo incapsulato nelle stazioni, in appartamenti gelidi, nelle strade, in Festa di mezza estate (un sogno musicale in equilibrio su tre pagine), scorre veloce e non passa mai, come in una labirintica promenade di Peter Handke, ma Anna Ruchat è molto più discreta nell’avvicinarsi ai suoi personaggi e nell’inquadrarli con chiarezza in un momento sfuggente, unico. Spesso si tratta di segmenti di viaggio: c’è sempre un treno che parte dalla Svizzera per andare a Parigi (Hotel Samarcanda e Il visone), a Roma o verso la Germania, dove Uomo tedesco all’alba celebra il suo stato zen ricordando che “la vita prosegue sempre, anche oltre la distruzione, ma le direzioni che prende sono imprevedibili”. Altrimenti sono frammenti di dialogo, il più delle volte tra donne, mogli, madri e figlie ritratte da Anna Ruchat nella fragilità, nella forza, nella straordinaria normalità con cui si scontrano con piccoli e grandi cambiamenti della storia. La protagonista, disorientata eppure consapevole, che affronta La gelata del ’63, è la prima figura a sfidare le zone grigie della vita (compreso il finale a sorpresa), così come il signor K., e nel nome non è difficile intravedere un omaggio a Kafka, è l’ultimo, quando ormai “sono i primi giorni di dicembre e c’è un’aria di smobilitazione”. Quel piccolo ricamo letterario che è Il cappello funziona come commiato, almeno quanto l’epigrafe di Wloder Goldkorn, tratta da Il bambino nella neve, coglie l’esatta dimensione in cui sono avvolti Gli anni di Nettuno sulla terra: “Preferisco che la memoria sia abitata da fantasmi, ombre, immaginazione; diffido di chi vuole che il ricordo sia sempre verificato. La memoria è tale quando è avvolta nella nebbia e soggetta a cambiamenti vale a dire quando è viva”. Anna Ruchat traduce questa visione in modo speculare, trovandogli una collocazione molto più precisa: “Noi esseri umani non facciamo che inventarci sempre nuove fantasie, amori infelici, torti subiti, carriere, per poi vivere nella nostalgia di altri mondi. L’unica via di accesso alla creazione è questa terra”. Una definizione razionale ed elegante, così come sono Gli anni di Nettuno sulla terra. 

lunedì 24 settembre 2018

Liza Cody

Tutto quello che avreste voluto sapere sul rock’n’roll business, raccontato come se fosse un thriller o una spy story. Non per niente, Liza Cody ha trascorsi di autrice di genere alle spalle: manda avanti infatti due serie, tra il noir e il mistery, dedicate rispettivamente a Eva Wylie (atleta e guardia del corpo) e ad Anna Lee (investigatrice privata). La ragazza che voleva di più non appartiene però nessuna delle due: Linnet Walker, detta Birdie, si trova nella scomoda posizione di compagna e vedova di una rock’n’roll star scomparsa nell'incendio della sua casa. Immaginatevi Courtney Love, e andiamo avanti. Bistrattata dai fans, perseguitata dal fisco, inseguita dagli spettri e pedinata da un manipolo di squali dello show biz che vogliono il classico lost album (un dettaglio che piacerà sicuramente a Lewis Shiner) nonché un documentario inedito girato ai Caraibi, perché è meglio raschiare il fondo del barile, intanto che c’è, visto che “il mondo della musica è un palo della cuccagna: difficile scalarlo, maledettamente facile scivolare giù”. Birdie Walker se la cava con truffe da poco, un lavoro flessibile e l’incarico di seguire una rock’n’roll band esordiente. I consigli che offre agli InnerVisions, nome preso in prestito da un disco di Stevie Wonder, valgono per tutti, indistintamente. Identikit del frontman e del leader di una rock’n’roll band: “Quello che vogliono tutti è una voce solista da cui non si riesca a staccare gli occhi, e non sono cose su cui si possa lavorare come fa un tennista su un colpo. Un cantante ce l’ha o non ce l’ha: è uno dei misteri della vita”. Regole d’ingaggio dello show biz: “I cani grossi mangiano i cani piccoli. I cani piccoli mangiano i cani più piccoli e così via, fin giù alle pulci che si portano addosso. Povere pulci, che saltano di qua e di là, in cerca di un boccone, a scrivere le loro canzoni sperando in una particina di successo nel circo delle pulci: gnam-gnam, e sei finito”. Definizione insindacabile di ruoli, mansioni e identità: “In questo gioco, chi ti fa il bucato non conta una scoreggia. Contano le illusioni”. Per non dire del diktat fondamentale: “Ogni canzone deve avere una fine. Quando la registri, se non ti viene in mente una buona fine, quello che ti salva è sfumare, ripetere sfumando. In scena, dal vivo, bisogna invece trovare un finale e darci dentro con convinzione. Offrire al pubblico un motivo per un applauso. Ovviamente può anche andare a finire nell’altro modo: magari dai al pubblico l’occasione perfetta per fischiare e cacciarti giù dal palco fra lattine di birra e altri generi di proiettili. Al termine di una serata puoi ritrovarti nel camerino tremante, a giurare che con la musica hai chiuso per sempre. Se non amate il rischio, dico alle mie band di marmocchi, trovatevi un posto in una lavanderia. È molto, ma molto più sicuro”. Naturalmente, è facile pensare che si tratti di luoghi comuni, ma Liza Cody conteggia anche quest’eventualità e così La ragazza che voleva di più è molto naturale nel ricordare spesso “di non diffidare dei cliché del rock’n’roll; se ci sono è per un motivo: funzionano. Proprio così. Birdie Walker lotta su ogni fronte, forte dell’esperienza già vissuta, di un pragmatismo che è l'unica salvezza nello show biz, di un pizzico di astuzia tutta femminile e della consapevolezza che “la gente pensa quello che le va di pensare. La verità non interessa. Vogliono solo una bella storia. Con le foto”. Scoprite da soli i dettagli dell'affaire e i fuochi d’artificio finali: La ragazza che voleva di più si legge d’un fiato perché Liza Cody scrive senza grandi ambizioni letterarie, ma con un senso del ritmo e con una conoscenza del rock’n’roll business che meriterebbero un Grammy.

martedì 18 settembre 2018

Paul Gauguin

Nelle Chiacchiere di un imbrattatele Paul Gauguin svolge l’apologia di una libertà che è “il diritto di tutto osare”. Anche se il tono è gioviale, spesso ilare e scoppiettante, il punto di vista è tranchant, proprio a partire dalla definizione di artista che “è un uomo superiore, e per questo del tutto in grado di comprendere la propria arte, e in seguito di paragonarla alle arti letterarie (nel caso il paragone fosse utile); o è un uomo inferiore di cui non c’è più motivo di occuparsi, cervello e volontà senza forza”. La distinzione è solo uno strumento preliminare, “capire tutto è bello, collegare tutto è meglio: ma anche creare è pur qualcosa”. La traduzione per Gauguin parte dalla specificità della sua arte quindi suggerisce che “saper disegnare non significa disegnare bene”, una prima, estrema distinzione che conduce necessariamente alla certezza che “l’artista si riconosce nella qualità della trasposizione”. Le sue “chiacchiere” diventano una specie di dizionario delle idee sulla pittura, un tentativo da rabdomante di elencare quelle emozioni di fronte a un’opera d’arte che “dipendono da molti fattori al di là della comprensione, così come è vero che una madre non trova mai il proprio figlio troppo sporco. È come dire anche che il critico deve, se vuole fare vera opera di critica, diffidare prima di tutto di se stesso, invece di cercare di ritrovarsi nell’opera”. In particolare, partendo dal fatto che “il pittore prende un modello come rappresentativo della leggenda: non sono gli attributi, il simbolo che ha in mano il modello, ad indicare la leggenda, bensì lo stile. Altrimenti è un gioco di prestigio per far credere di esserci riusciti. È proprio qui che il disegno comporta delle sfumature, passando dal possibile all’impossibile”, Paul Gauguin ricorda che “non è il sistema a fare il genio”, piuttosto una disposizione, un’attitudine, uno spirito che predilige le domande, i dubbi, l’osservazione, la contemplazione. In effetti, si chiede nel bel mezzo delle Chiacchiere di un imbrattatele: “Le idee sono come i sogni, un assemblaggio più o meno riuscito di cose o pensieri intravisti: sappiamo veramente da dove vengono?”. La domanda spiega poi il corso di quel metabolismo artistico che Antonin Artaud interpretava come un “ingrandire le cose della vita sino al mito”, ma che secondo lo stesso Gauguin si esprimeva a fondo nel trovare “un senso completamente diverso”, perché “se stati d’animo in cui ci troviamo hanno una grande influenza sulla nostra lettura, hanno anche, ma in modo più importante, un’influenza sulla nostra opera”. A quel punto il viatico per l’artista diventa anche l’unica morale a cui attenersi che Paul Gauguin declama così: “Non avere più moglie né figli che vi rinnegano. Poco importano le ingiurie. Poco importa la miseria. Tutto questo come condotta d’uomo. Come lavoro. Un metodo; di contraddizione se si vuole. Affidarsi alle astrazioni più forti. Fare tutto ciò che era vietato, e ricostruire con fiducia, senza paura di esagerare: esagerando perfino. Imparare di nuovo, poi, una volta imparato, ricominciare da capo: vincere tutte le timidezze, qualunque sia il ridicolo che ne possa derivare”. La sicurezza dell’asserzione non ha alcuna garanzia: è propria dei visionari che sanno guardare oltre i contorni, le forme e le luci, in cerca di un altro modus vivendi. Brillante.

martedì 11 settembre 2018

Ben Rawlence

In quello che Mike Davis chiamava Il pianeta degli slum, l’agglomerato dei campi profughi di Dadaabo (nelle sue due estensioni) e Hagadera, ovvero La città delle spine, avrebbe occupato una posizione speciale. Non è una coincidenza: la conclusione a cui arriva Il pianeta degli slum collima con l’inizio della storia di Guled, uno dei nove protagonisti e testimoni del reportage di Ben Rawlence. Il punto d’incontro è la Somalia del 1993, quando il connubio tra carestia e guerra civile ha dissolto una nazione e inaugurato un esodo senza fine. Le immagini di Black Hawk Down sono tutto ciò che ci resta, come a ricordare che gli interventi occidentali finiscono per essere inutili, se non dannosi, e venticinque anni dopo, la Somalia continua in gran parte a essere un luogo invivibile. Tra restare nel pericolo incombente e lasciare la propria terra per un campo profughi in Kenya la scelta è obbligata perché “quando c’è la guerra, non si prendono decisioni razionali e ponderate: si compie un passo alla volta, come quando si scala una parete di roccia, sperando di non cadere nell’abisso”. È così che è sorta La città delle spine: più di cinquecentomila persone alloggiate in ripari di fortuna, sotto una tenda, se non sulla nuda terra, esposti alle intemperie, alle peggiori privazioni, alle minacce e, più di tutto, all’indifferenza perché, come scrive Ben Rawlence, “la mitologia e la religione affondano le loro radici nella cultura dell’esilio, ma ciò nonostante non siamo in grado di riconoscere che i profughi sono in primo luogo esseri umani”.  Le storie di Guled, Gab alias Ahmed, Apshira, Billai, Christine, Fish, Idris, Isha, Kheyro, Mahat, Maryam, Muna, Nisho, del professor Indha Dae e Tawane raccolte da Ben Rawlence raccontano la vita di un coacervo di disperazione, fatica, abulia. In transito tra una fuga e l’altra,  si ingegnano ogni giorno per risolvere piccole e grandi incombenze quotidiane, ma La città delle spine è ben lontana da un’idea, anche minima, di ospitalità. Ogni piccola necessità diventa fonte di umiliazione e nei campi bisogna pagare due volte tutto, che poi è quel poco che serve: acqua, latte, grano, riso. Ben Rawlence non nasconde nulla di quello che avviene tra le pieghe degli aiuti umanitari e degli uomini del governo del Kenya. La corruzione endemica che filtra da ogni istituzione fino ai campi è una forma di sfruttamento assiduo a cui i rifugiati non possono sottrarsi perché “sono generalmente persone docili e prive di alcun potere reale, che obbediscono agli ordini, temono l’autorità e implorano per ottenere ciò che spetta loro di diritto”. La constatazione di Ben Rawlence ricorda che lo status dei rifugiati resta indefinito in un esilio perenne e, per quanto possa sembrare paradossale, pur grondanti miseria, rappresentano un’opportunità. Essendo un crocevia delle attenzioni e degli aiuti internazionali, La città delle spine diventa un oggetto del contendere politico e i profughi si ritrovano a essere, loro malgrado, parte delle querelle elettorali del Kenya, senza che si riesca a intravedere una concreta possibilità di garantire un minimo insindacabile di vivibilità. Ben Lawrence ricorda, per esempio, che una delle organizzazioni internazionali aveva promosso la realizzazioni di abitazioni più sicure, sfruttando un innovativo sistema di costruzione, semplice ed economico. Un progetto osteggiato dal governo del Kenya fino a farlo fallire perché le case così ottenute erano di gran lunga migliori di quelle di gran parte della popolazione locale. Basta questo a comprendere che La città delle spine è l’imitazione in negativo di una metropoli che contiene tutte le sofferenze possibili, da un mercato del lavoro assurdo e violento alle irrisolte questioni tribali fino alle infiltrazioni di terroristi e delinquenti comuni. L’alternativa è ancora fuggire, solo che non c’è alcun posto dove andare, soltanto liste d’attesa e code strazianti per qualsiasi cosa. Come se il tempo fosse stato inghiottito dal deserto: tra i fantasmi del passato e un futuro senza speranza, resta l’eterno presente di una città invisibile che Ben Rawlence, dando voce ai suoi poveri abitanti,  ha saputo rivelare in un libro necessario e importante.

sabato 8 settembre 2018

Peter Handke

Il pretesto è una canzone di Van Morrison che Peter Handke elegge a “suo” cantante a cui rubare “la linea della bellezza e della grazia”. Coney Island (dall’album Avalon Sunset) è un frammento di due minuti che celebra le proprietà bucoliche di una passeggiata open air di un’allegra coppia. Niente di importante, si capisce, ma per Peter Handke è il passo oltre la soglia che lo conduce al Saggio sulla giornata riuscita: “L’ascolto attento di un tono mi dà la tonalità per l’intero viaggio della giornata. Il tono non ha bisogno d’una pienezza di suono, può essere uno qualunque, perfino qualcosa che è semplicemente un rumore; l’essenziale è che io riesca a farmi tutt’orecchio per quel tono”.  Comincia così un monologo che in realtà è un dialogo con se stesso (“Chi parla a chi qui? Io parlo a me”) attraverso una vocazione innata alla dissertazione. L’ipotesi della giornata perfetta, “incomparabile” e/o “unica” si presta a più livelli di interpretazione, ma intanto Peter Handke si premura di avvisare il lettore che “l’idea in effetti è un’idea, perché non me la sono fatta leggendo né l’ho escogitata: mi è venuta in un momento di grande difficoltà, con lo slancio che per me è sempre stato degno di fede, lo slancio della fantasia. La fantasia è la mia fede”. La precisazione è utile, visto che il saggio è aleatorio, né più né meno di altre occasioni: quello che preme a Peter Handke non è la dimostrazione sull’esistenza (piuttosto che no) di una giornata perfetta, ma il riversare una serie di quesiti che attecchiscono nel suo eloquio come erbe infestanti (che sopravvivono ben più a lungo di un’idea). La capacità estrema di Peter Handke è quella di sottrarsi a ogni responsabilità per restare ancora soltanto al fluidificare (contagioso) della suo stile finché l’idea della giornata riuscita non si evolve “da un’idea di vita in un’idea di scrittura”. L’intento non è dichiarato, la metamorfosi appare come un processo naturale, per quanto Peter Handke sia esplicito fin dai primi passi: “Io, della giornata riuscita, non ho alcuna visione particolare, nemmeno una. C’è soltanto l’idea, e questo mi fa quasi disperare di poter dare all’immagine un contorno riconoscibile, di poter far trasparire il modello, di poter seguire la traccia luminosa originaria: di riuscire a raccontare della mia giornata, come desideravo tanto all’inizio, in modo puro e semplice”. A quel punto riprende l’invocazione a Van Morrison: “Abbozzami una prima immagine, descrivimi delle immagini! Raccontala, la giornata riuscita. Fai sentire la danza della giornata riuscita. Cantami la canzone della giornata riuscita”. L’ambizione di riuscire a coglierla in flagrante rimane, alimentato da moltitudini di paradossi e di domande (“Fede? Sogno? Visione? Più che altro, almeno al principio di questo periodo, una visione: dei disincantati, liberi da qualsiasi concetto di qualsivoglia fede; una specie di ostinato sognare ad occhi aperti”), da fugaci intenzioni filtrate da Coney Island, compresa l’opzione di “camminare fino alla prima stella”, ma, e non c’è nemmeno il bisogno di dirlo, tutto quello che succede, alla fine, è “che non succede proprio niente”. Eppure Peter Handke non si lascia incastrare nemmeno dalla gabbia che si è costruito e attorno struttura al Saggio sulla giornata riuscita sviluppa un discorso coerente, fluente, senza interruzioni se non quelle “intermittenze del cuore” che poi definiscono un’intuizione, una forma, un pensiero, un modello. Per Van Morrison è “l’inarticolato linguaggio del cuore” e nell’arco di una minuscola ballata esprime tutto, ma lui usa strumenti più istintivi, spontanei e immediati di quelli di cui dispone Peter Handke.

venerdì 7 settembre 2018

John Berger

Operai in fila nella mensa aziendale, le ciotole in mano, un frutto sui piatti. Silenzio. Una cartolina da Ginevra e gli sguardi al momento di controllare i passaporti. Sigarette accese nello scompartimento di un treno che sferraglia verso la Germania. Un brusio. Test clinici a Istanbul. Catene di montaggio a Lione. Una festa di contadini in Kosovo, un gioco di bambini in Sicilia, turisti ad Atene. Quello che è rimasto a casa, quello che si portano dietro i lavoratori migranti: le valigie, e un’immensa solitudine. Le fotografie di Jean Mohr, i volti scavati e le maschere nelle gallerie, gli uomini controllati, misurati e verificati nelle loro “attitudini”, come se fossero parti da incastrare in un insieme molto rigido, sono eloquenti nel mostrare la sofferenza, la nostalgia, la fatica, le aspettative e le delusioni di un viaggio che nasceva con la speranza di trovare un lavoro. L’emigrazione in cerca di un’altra vita o almeno di una dignità è una metamorfosi il cui destino è restare incompiuta. Come scrive lo definisce John Berger, Il settimo uomo è “una specie di album di famiglia di coloro che sono stati costretti, o sono costretti oggi, a lasciare le loro famiglie nella speranza di portare a casa un salario che permetterà a quelle famiglie di sopravvivere”. Le immagini definiscono “un’assenza”. Vengono da aree rurali del Mediterraneo: la Calabria, i Balcani, la Turchia e il corredo iconografico che distingue Il settimo uomo ha un impatto fortissimo nel rendere l’atmosfera: i migranti sempre in transito, in stazione, sulla strada, nelle baracche ai margini della città, come se il loro viaggio fosse infinito, in una condizione impalpabile, quasi onirica. L’avvertenza di John Berger non lascia spazio a fraintendimenti: “In un sogno il sognatore è dotato di volontà, agisce, reagisce, parla e tuttavia sottostà allo svolgersi di una storia su cui ha ben poca influenza. Il sogno gli capita”. Con gli occhi aperti, si vedono i frammenti di un’identità sparsi per tutto il continente, dove comunque se “il soggetto è europeo, il suo significato globale”. Su questo John Berger e Jean Mohr sono chiarissimi, nonostante il carattere movimentato e intuitivo con cui si sviluppa Il settimo uomo, essendo coscienti che “per cogliere l’esperienza di un altro, non basta smantellare e rimontare il mondo con lui al suo centro. Bisogna esaminare la sua situazione per venire a conoscenza di quella parte della sua esperienza che deriva dal momento storico”. La collocazione, fotografia dopo fotografia, e una didascalia dopo l’altra, prende forma in modo eloquente, e per molti versi definitivo quando John Berger scrive con convinzione che “il migrante eredita la povertà. Ma è una formulazione troppo sommaria per rivelare il dramma della sua situazione. Le voci della sua eredità vanno elencate”. Nel libro sono spiegate una per una nel dettaglio ed è per questo che Il settimo uomo, pur risalendo al 1975, resta di un’attualità straordinaria, come se John Berger e Jean Mohr avessero visto attraverso una dimensione ben al di là del tempo e delle geografia.

mercoledì 5 settembre 2018

Enrique Vila-Matas

Perseguitato dall’idea di essere un sosia di Ernest Hemingway, Enrique Vila-Matas ricostruisce i suoi due anni di formazione in una Parigi effervescente e labirintica, prigioniero dell’idea di diventare uno scrittore e ossessionato dalla vitalità della città. Forse la citazione di Samuel Beckett in fondo al libro ha più di un senso, ma colpisce nel segno: “Non s’inventa nulla, si crede di inventare, di evadere, non si fa che balbettare la propria lezione, frammenti di un senso imparato e dimenticato, la vita senza lacrime, così come la si piange. E poi al diavolo”. È l’ispirazione principale, anche se si trova al capolinea, che porta Enrique Vila-Matas a ricostruire i tempi intensi e brucianti vissuti a Parigi sulle orme della Lost e della Beat Generation, ospite di Marguerite Duras. Un’impresa difficoltosa perché “il passato è sempre un insieme di ricordi, di ricordi molto precari, perché non sono mai veri” e la sua ossessione per Ernest Hemingway lo porta spesso a sovrapporre epoche e tempi molto diversi. È quella “sensazione di essere in due tempi e in due posti” che nutre un po’ tutte le pagine di Parigi non finisce mai perché Enrique Vila-Matas si dibatte tra l’estenuante tentativo di dare forma alle sue velleità (il suo lavorio è tutto concentrato su un romanzo piuttosto criptico, L’assassina letterata), la vita rutilante di una città che non dorme mai e sprizza arte da ogni angolo e le pressioni della famiglia che dalla natia Spagna non smette nemmeno un secondo di tormentarlo per riportarlo con i piedi per terra. Di solito è così per tutti e Enrique Vila-Matas, tanto a Parigi nei suoi giovani anni ribelli, quanto oggi, si aggrappa al suo strambo processo di identificazione con Ernest Hemingway non tanto per emularlo o imitarlo, quanto per prendersi la libertà assoluta di scegliersi una faccia, un’identità e una personalità, che lui stesso descrive così: “D’altra parte credo di avere il diritto di potermi vedere in modo diverso da come mi vedono gli altri, vedermi come ho voglia di vedermi e non avere l’obbligo di essere la persona che gli altri hanno deciso che io sia. Siamo come gli altri ci vedono, d’accordo. Ma io mi rifiuto di accettare una simile ingiustizia. Sono anni che cerco di essere più misterioso, imprevedibile e riservato possibile. Sono anni che cerco di essere un enigma per tutti”. In un infinito gioco di specchi e di riflessi confluiscono Rainer Maria Rilke e Henry Miller, Borges e Unamuno, Peter Handke e Van Morrison, Sartre e Platone, Flaubert e Duchamp, Scott e Zelda, tutti radunati in un pirotecnico scintillio di suggestioni letterarie. Pur aiutato dall’anima di una  “festa mobile” che in un modo o nell'altro è stato il cardine per le maggiori espressioni artistiche degli ultimi due secoli, Enrique Vila-Matas magari non è riuscito nell’intento di trasformarsi in un mistero e poi in un mito, ma almeno è riuscito a raccontare la quotidianità rutilante di chi coltiva la vita con quel fertilizzante indispensabile che si chiama ironia, arrivando alla sacrosanta conclusione che “non hai altra scelta che cercare di essere quanto più ostinato possibile, mantenere la fede nell’immaginazione più a lungo degli altri”. In effetti, a Parigi, hanno sempre saputo come si fa.

martedì 4 settembre 2018

Hans Magnus Enzensberger

La mappa con cui si orienta Hans Magnus Enzensberger segue l’elemento naturale delle correnti e dei venti che, da secoli e nei secoli, si sovrappone ai tracciati delle migrazioni. L’indicazione va un po’ oltre le coordinate geografiche, che è sempre utile ricordare, e assume un significativo aspetto simbolico nel confronto tra l’ancestrale vocazione al viaggio perché “la condizione normale dell’atmosfera è la turbolenza. Lo stesso vale per l’insediamento degli uomini sulla terra”. Per decifrare La grande migrazione è necessario superare i luoghi comuni dell’urgenza e attenersi a un approfondimento storico, visto che i flussi migratori non sono una novità di questo o del ventesimo secolo. La sintesi di Enzensberger parte da una constatazione che spesso viene trascurata: alla fonte di ogni partenza, a tutte le latitudini, ci sono “movimenti di fuga che sarebbe cinico chiamare volontari”. Guerre, carestie, persecuzioni o il semplice miraggio di una vita più dignitosa dato che “nessuno emigra senza una promessa” conducono ad affrontare gli imprevisti e i pericoli di vere e proprie odissee che non finiscono una volta giunte a destinazione. L’approdo finale è soltanto il punto di non ritorno di un’evoluzione incompiuta, come specifica con estrema precisione lo stesso Enzensberger: “I grandi movimenti migratori portano sempre a lotte per la ripartizione del territorio. Sono questi conflitti inevitabili che il sentimento nazionale preferisce interpretare come se la lotta riguardasse non le risorse materiali, quanto piuttosto quelle immaginarie. Allora si combatte per la differenza tra autoconnotazione e connotazione attribuita dagli altri, un campo questo, che offre alla demagogia possibilità di sviluppo ideali”. Lo sviluppo di “un particolare desiderio di paura” pare innato nelle emozioni che La grande migrazione suscita e anche in questo caso Enzensberger è molto distaccato nel far notare che “è possibile che anticipare il panico serva ad immunizzare; ha un effetto simile a quello di una vaccinazione psichica. In ogni caso non produce alcun tentativo di soluzione”. Con la stessa scrupolosità, fa notare che la prima e fondamentale discriminazione rimane quella economica perché “dove il conto in banca è a posto, l’odio per gli stranieri svanisce come per miracolo. La palma in questo senso spetta ai banchieri che riciclano il loro denaro. È gente che non conosce più razze ed è superiore a ogni nazionalismo. Presumibilmente sono gli unici al mondo ad essere alieni da ogni pregiudizio. Gli stranieri sono tanto più stranieri quanto sono più poveri”. Su questo Enzensberger non si fa illusioni e ammette che “la società multiculturale resterà un confuso slogan sino a quando saranno considerate tabù le difficoltà che il concetto pone ma non chiarisce”. D’altra parte, anche con La grande migrazione in corso va cercato quel delicato equilibrio, quella condizione tale “che ognuno possa esprimere ciò che pensa del potere dello Stato o del buon Dio senza essere torturato o minacciato di morte; che divergenze di opinione siano risolte in tribunale e non attraverso la vendetta di sangue; che le donne possano muoversi liberamente e non siano costrette a farsi vendere o mutilare; che si possa attraversare la strada senza incappare nelle raffiche di mitra di una soldatesca impazzita: tutto questo non è solo gradevole, ma irrinunciabile. Ovunque al mondo esistono persone, e sono presumibilmente la maggioranza, che auspicano tali condizioni e che sono pronte a difenderle dove esistono. Senza dare troppo spazio all’enfasi, possiamo dire che si tratta del minimo di civiltà. Nella storia dell’umanità questo minimo è stato raggiunto solo eccezionalmente e in maniera provvisoria. È fragile e facilmente vulnerabile. Chi lo vuole proteggere da contestazioni esterne, si trova di fronte a un dilemma. Quanto più tenacemente una civiltà si difende da una minaccia esterna, quanto più si chiude in se stessa, tanto meno alla fine ha da difendere. Quanto ai barbari, non è necessario aspettarli davanti alle porte della città. Sono qui da sempre”. È utile saperlo, La grande migrazione ha molti limiti, ma non tutti.