In una delle scene iniziali di un bel film di qualche anno fa, I sogni segreti di Walter Mitty, il protagonista dice a Ted, tagliatore di teste incaricato di riorganizzare l’organico, un bel modo di dire per mandare tutti a casa: “Non devi per forza fare lo stronzo”. Proprio così: la situazione è già abbastanza drammatica che non è necessario aggiungerci altro ed è quello che succede con Il cannibale, sorprendente terzo romanzo dell’olandese Tom Hofland (nella traduzione di Laura Pignatti). In un’azienda farmaceutica, Lute (Luut, per gli amici e la ex), il responsabile del reparto vendite e qualità è incaricato dalla direttrice in persona, Klara (attenzione ai nomi, questo era uno di quelli più in vista in Underworld di Don DeLillo) di azzerare il personale dei suoi uffici. È in corso un processo di fusione e acquisizione, e i pretendenti non fanno prigionieri. Lute è angustiato: anche se “è solo l’ambasciatore che deve svolgere l’incarico” e “non è colpa sua; lui non è altro che un intermediario”, conosce tutti e sa che sono tutelati da contratti molto solidi e precisi. Con mille dubbi, deve procedere: la procedura dei licenziamenti e/o delle dimissioni più o meno volontarie deve essere svolta in fretta, con urgenza e con precisione chirurgica, ma sa nemmeno da che parte cominciare. Gli affari sono affari, questo è il refrain, e il sistema c’è, ed è “un sistema che si sostiene e si alimenta da sé. Un sistema che sembra l’unica verità. Quel sistema è costituito da idee che vengono viste come fatti reali. Il sistema deve essere percepito come un fatto; come un solido insieme di regole alle quali tutti si attengono, per via della tradizione, della cosiddetta natura, per qualsiasi motivo”. Per puro caso, incontra prima Reiner e poi Lombard, due specialisti in gestione delle risorse umane. Sono un po’ eccentrici, ma si rivelano preparati, efficienti e, soprattutto, veloci. Lute è sollevato quando Lombard dice: “C’è un mondo personale nel quale siamo carini e gentili, e c’è un mondo professionale nel quale prendiamo le decisioni giuste”. Et voilà: i consulenti procedono senza esitazioni e l’eccesso di zelo, viste le contingenze, va messo in conto, ma è come se Lute avesse evocato forze che non riesce più a controllare, la cui potenza esula dalla razionalità e dall’organizzazione del lavoro. Lombard e Reiner (e il loro cane tutto nero) hanno qualcosa di demoniaco e interpretano a modo loro l’odioso incarico. Qui non è concesso svelare di più, tocca al lettore aprire una porta laterale e avventurarsi in quegli anfratti che Il cannibale annovera nell’asettica architettura aziendale. È lì (sotto) che viene svolto lavoro sporco e l’elemento sovrannaturale imprime alla storia di Lute, Klara, Mea ed Essel e tutti gli altri un ritmo ipnotico, ma che ripercorre alla perfezione le logiche e i luoghi comuni, spesso inappellabili, che conducono a soluzioni brutali. Il cannibale, con tutte le sue deviazioni, caratterizza benissimo l’atmosfera che si vive in quei momenti: la svolta avviene nella brughiera in una dimensione parallela che mette in risalto l’attitudine visionaria di Tom Hofland, prologo ed epilogo compresi. Cambia registro con disinvoltura, riesce a convincere anche nei passaggi più assurdi e, con una scrittura asciutta e martellante, priva di retorica o moralismo, ma non di una punta di sarcasmo, ci mostra la realtà così com’è. Sì, mischia le carte in tavola, ma con non poco coraggio richiama la peste del 1349 associandola al dramma di France Télécom, quando venne avviato un piano di riorganizzazione in vista della privatizzazione che prevedeva di ridurre il personale di un quinto, circa ventimila persone. Nel 2007 il presidente, amministratore e plenipotenziario disse che sarebbe riuscito nell’obiettivo facendo passare gli esuberi “dalla porta o dalla finestra” e il clima che seguì portò a un’ondata di suicidi (oltre trenta persone). Niente di personale, ça va sans dire, ma guarda caso si chiamava Lombard, non era un romanzo e non era nemmeno un film.
Nessun commento:
Posta un commento