mercoledì 31 gennaio 2024

John Berger

Il ritratto di John Sassall, medico condotto in the middle of nowhere, è, comprese le fotografie di Jean Mohr, uno sguardo ravvicinato al corso della vita in un ambiente bucolico e impenetrabile, racchiuso su se stesso e, in qualche modo, autosufficiente, che John Berger celebra e definisce già nell’incipit di Un uomo fortunato: “I paesaggi possono essere ingannevoli. A volte si direbbe che un paesaggio non sia tanto lo scenario della vita dei suoi abitanti quanto un sipario dietro il quale hanno luogo le loro lotte, le loro conquiste e le loro disgrazie”. A St Briavels nel Gloucestershire, non lontano da Bristol, nella profonda campagna inglese i residenti sono un riflesso del territorio e sono “duri, rassegnati, modesti, stoici”. I luoghi, non meno delle esigenze quotidiane comportano che “il concetto di resistenza è fondamentalmente assai più importante della felicità”. Nella piccola comunità ci si accontenta di poco: un lavoro modesto, una serata al pub, quel minimo per cui “qualunque cultura generale opera come uno specchio che consente all’individuo di riconoscersi, o perlomeno di riconoscere quelle parti di sé che sono socialmente ammissibili”. In questo ristretto habitat, John Sassall svolge il suo compito seguendo “l’ideale del servizio” ed è nella complessità del rapporto con il paziente (e malattia, e morte) che John Berger approfondisce con lunghe ed elaborate digressioni tutto un ordinamento di riflessioni sulla sua personalità e sulla sua missione, compresi i contrasti, le distanze, le differenze con i “boscaioli”. Pur nella condizione provinciale e circoscritta, John Sassall “è riconosciuto come un buon medico perché risponde alle aspettative profonde, ma non formulate, del malato di un senso di fraternità”. Non dispensa soltanto diagnosi e medicinali, punti di sutura o sciroppi: cerca di capire chi è arrivato nel suo ordinatissimo ambulatorio, cosa l’ha portato lì. È “meticoloso”, “gentile”, “comprensivo” e sembra sapere che “la consapevolezza della malattia è parte del prezzo che l’uomo ha pagato per primo e continua a pagare per la sua coscienza di sé”. Il suo afflato ricorda l’uomo di medicina primitivo che, come puntualizza John Berger, “era spesso anche sacerdote, stregone e giudice”. È protagonista di una profonda dicotomia perché se “il suo senso di padronanza è alimentato dall’ideale di perseguire l’universale”, rimane avvolto da una coltre di insoddisfazione e da un senso di inadeguatezza che l’esercizio della professione, per quanto svolto con ammirevole solerzia, non riesce a risolvere. Scriveva nei suoi appunti: “La tragedia fondamentale della situazione umana è non sapere. Non sapere che cosa siamo o perché siamo, con certezza”. Il dilemma, che pare coinvolgere anche le gradazioni di bianco e nero nelle inquadrature di Jean Mohr, si articola in tutta la “storia di un medico di campagna” che John Berger riassume così: “Sassall è nondimeno un uomo che fa ciò che vuole. O, per essere più precisi, un uomo che persegue ciò che desidera perseguire. A volte la sua ricerca comporta tensione e sconforto, ma di per sé è la sua unica fonte di soddisfazione. Come un artista o come chiunque altro creda che il proprio lavoro giustifichi la propria vita, Sassall, secondo i miserabili standard della nostra società, è un uomo fortunato”. La valutazione è ambivalente nelle implicazioni dirette e indirette perché nelle sue condizioni “può sembrare che controlli il tempo, come, in certe occasioni, il navigatore sembra governare il mare. Ma tanto il medico quanto l’uomo di mare sanno che si tratta di un’illusione”. Questo è il groviglio strutturale di Un uomo fortunato e la crisi strisciante, umana molto umana, di John Sassall avrà un risvolto tragico a cui John Berger riserva una brevissima nota, con discrezione, come se non volesse disturbare.

martedì 9 gennaio 2024

Ryszard Kapuściński

Kapuściński in viaggio tra i frammenti della storia sviluppa uno dei suoi libri più personali, un diario che documenta un periodo dal 1995 al 1989, anche se la cronologia non è ordinata secondo uno schema preciso e segue una trama molto particolare. Sono anni ricchi di trasformazioni e Kapuściński ammette che “è difficile scrivere in un mondo di cambiamenti tanto drastici e radicali. Tutto ti scivola da sotto i piedi, mutano i simboli, i segni si spostano, i punti di orientamento non hanno più un luogo fisso. Lo sguardo di chi scrive erra in paesaggi sempre nuovi e sconosciuti mentre la sua voce si perde nel rombo della precipitosa valanga della storia”. Annotazione dopo annotazione, Lapidarium diventa un tentativo di riportare il centro di gravità attorno al mestiere di scrivere che Kapuściński ha esercitato con uno stile inimitabile e una coerenza encomiabile che pervadono fino in fondo ogni passaggio. Il primo, che filtra fin dalle pagine iniziali di Lapidarium, riguarda proprio quella che chiama “la fatica maggiore: non lasciarsi invischiare nella quotidianità, non lasciarsi frastornare da chiacchiere e ciarpame. Soffocare in noi l’inutile curiosità per le cose marginali, sterili, di nessun conto. La curiosità deve essere selettiva, in funzione esclusiva della scrittura”. Gli argomenti e i luoghi sono tra i più disparati e Kapuściński racconta Berlino e Mosca, Dalí e Borges, il Ruanda e l’Iran, libri e film esercitando una cernita essenziale: “Occorre operare una scelta e decidere che cosa sia veramente importante e che cosa no. Bisogna scrivere il meno possibile, scegliere con cura, escludere, tagliare, ridurre, cestinare, conservare un’osservazione su cento. Non esistono regole per questo procedimento: gli unici criteri validi sono l’intuizione e la conoscenza”. Bisogna aggiungerne un terzo che è la necessità di “immedesimazione” che Kapuściński definisce così: “Ho bisogno di illudermi, sia pur fuggevolmente, che il mondo dove mi trovo in questo momento sia l’unico esistente. Mi capita anche di spingermi più in là dell’illusione: certe volte ho creduto che il mondo dove mi trovavo per me fosse ormai l’ultimo, e che da lì sarei andato direttamente in cielo”. La metodologia che si va scoprendo nelle pagine di Lapidarium non lascia spazio a dubbi di sorta. Kapuściński parte dalla lettura, nello specifico dalla poesia (“Ho bisogno della poesia come esercizio linguistico: non posso rinunciarvi. La poesia richiede una profonda concentrazione sulla lingua, il che traduce poi in una buona prosa. La prosa deve possedere una sua musica, e la poesia è ritmo. Ogni volta che comincio a scrivere, devo anzitutto trovare il ritmo giusto, che mi trasporterà come un fiume. Se non riesco a sentire il valore ritmico di una frase, la abbandono. Prima devo trovare il suo ritmo interno la frase, poi il frammento di testo, infine l’intero capitolo”) e dalla prosa (“La prosa è una forma di letteratura talmente trasparente che il lettore scopre subito i punti deboli, quelli dove l’autore si sente insicuro e non riesce a organizzare il materiale. La semplicità crea trasparenza: per questo è tanto difficile scrivere in modo semplice. Proibito usare trucchi, proibito imbrogliare”) per arrivare ad aprire la sua cassetta degli attrezzi e spiegare come prende forma la sua voce. Nella generosa panoplia di Lapidarium, spicca l’intenzione principale che spiega molto, se non tutto, del lavoro di Kapuściński, quando dice: “Scrivendo un libro, o raccogliendo il materiale per scriverlo, mi concentro soprattutto su quel che dice la gente. Di solito incontro i miei personaggi in modo del tutto casuale, ma sono sempre le loro affermazioni, il loro mondo, il loro modo di vedere che contano, non i miei. Io cerco di restare nell’ombra. Si tratta dei loro pensieri, delle loro visioni, delle loro riflessioni”. Dall’altra parte, perché non sia uno sforzo fine a se stesso, e tornando ancora alla lettura, si premura di ricordare che “scrivere fa parte del mondo della comunicazione. Il libro è un comunicato. Il processo di comunicazione si sposta secondo un moto lineare tra mittente e destinatario, che sono i due capi dello stesso filo. Se un libro di alto livello non trova un lettore di alto livello, resta sospeso per aria, manca l’obiettivo. Ricettività, attivismo, sforzo creativo devono risiedere in entrambi i capi di questo ponte”. Il collegamento dipende solo dal viaggio e lì Kapuściński confessa: “Di ogni strada mi piace pensare che si tratti una strada senza fine, che corre intorno al mondo”. Un passo alla volta, è la sua storia.