Quando Bertolt Brecht diceva che “oggi guardare un albero è quasi un delitto” non era lontano dalla profezia ed è proprio in quella direzione che si è avviato, con rara maestria, Murray Bail. Per Holland, il protagonista di Eucalyptus, “il mondo degli alberi offriva almeno una solida base. In fondo si trattava di un vero e proprio mondo libero da psicologismi, un universo chiuso e aperto al tempo stesso. Il compito di classificarlo e descriverlo era ragionevolmente complesso. Gli eucalipti, per esempio, erano soggetti difficili, ma si potevano considerare una cosa sola, come una persona riprodotta infinite volte”. Ci sono più di settecento specie e catalogarle tutte non è soltanto l’ossessione di Holland, ma anche il tentativo di ricordare che “l’immobilità è bellezza, sempre”. Ogni tipo rappresenta una ricchezza a sé, tutti condividono qualità vegetali importanti per gli uomini e soprattutto per le api, ma per Holland acquisteranno un valore particolare, assoluto. Quando ritrova la figlia Ellen (“Gli occhi e la mascella della ragazza recavano la sua inconfondibile impronta. Aveva anche lo stesso doppio sorriso, e lo stesso modo di aggrottare le sopracciglia quando doveva rispondere a una domanda. Con le donne del paese era molto educata”) l’elenco completo degli Eucalyptus diventa la prova d’amore per ogni pretendente. La conformazione fiabesca non rinuncia a identificare il particolarissimo territorio dell’Australia “dove i fiumi corrono troppo veloci verso il mare; una svista della natura che ha dato origine a una vasta zona morta, una regione di assurda desolazione, che a nulla serve se non a incoraggiare milioni di fotografi scadenti e a scatenare l’immaginazione di politici, giornalisti e altri pensatori”. È una prospettiva in cui “alcuni popoli, alcune nazioni, vivono in un’ombra perenne. Altri invece fanno ombra: una lunga ombra li precede, persino in chiesa o quando c’è il sole, che viene prosciugato dallo straccio sporco delle nubi”. Ed ecco che, nella trama di Eucalyptus, “il paesaggio s’insinua ancora nella nostra narrazione, anche se non per molto. Una baracca usata per tosare le pecore galleggia sulla propria ombra, ormeggiata alla casa padronale dalla linea indolente di una recinzione. Va da sé che la terra di cui parliamo è come ornata di recinti. La linea retta è sempre, marcatamente umana”. Proprio attraverso Ellen scopriamo che “esistono storie (così le venne spiegato) così inconsistenti da non potersi quasi definirle tali. Ce ne sono alcune che si esauriscono in una riga o due: frammenti senza una fine, troppo aderenti al reale. Sono storie solo in senso lato, o possibili storie”. All’ombra di una foresta “che è linguaggio”, Eucalyptus si eleva ricordandoci che “ogni soggetto al mondo ha la sua storia, è ovvio, che è il risultato di altre storie, e così all’infinito”. La presenza incombente degli alberi e della loro definizione è la prova vivente e ingombrante che “anche un semplice nome può generare una storia. L’imprevisto può manifestarsi nel piccolo e nel grande”. Murray Bail ha il pregevole e raffinato dono di lasciarsi trasportare dai suoi personaggi e la sua scrittura, lirica, elegante ed eclettica, riesce a ribadire che “eppure è innegabile che anche il più breve aneddoto (e qui non diciamo storia) è in grado di produrre un’eco dal potere strano, indelebile. Non dimentichiamo che per la stessa ragione gli artisti attribuiscono un grande valore a disegni e abbozzi”. Non a caso, Michael Ondaatje ha definito Eucalyptus “uno dei più straordinari e meravigliosi corteggiamenti nella storia della letteratura”. Di sicuro, è un romanzo intenso e singolare, che affascina e incanta e, sapendo che “i grandi alberi generano storie ancora più grandi”, asseconda uno sguardo capace di cogliere un frammento e di trasformarlo in qualcosa di infinito.
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