Se viene meno il “diritto alla città” come lo immaginava Henri Lefebvre, non resta che spostarsi nello “spazio indefinito” delle realtà suburbane dove un simulacro del senso di comunità può proliferare tra barbecue, mercatini dell’usato e aperitivi. È la scelta di Charles Caradec ed Éva che, lavorando “nel settore dell’urbanistica” è ben consapevole dei limiti e delle possibilità del trasloco dal centro di Parigi verso un nuovo quartiere periferico. Julia Deck glielo fa dichiarare senza esitazioni: “Credevo nell’espansione della città fuori dai suoi confini ed ero convinta che le zone verdeggianti meno densamente popolate potessero garantire a tutti un maggiore benessere. Ci saremmo allontanati dal rumore, dall’inquinamento. Nel nostro giardino avremmo potuto respirare l’aria a pieni polmoni senza alcun timore”. Questo il progetto di Proprietà privata che (nell’accurata traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala) racconta uno o più fallimenti perché le regole dell’architettura e delle pianificazioni territoriali non sempre coincidono con quelle della convivenza. Anche se l’opzione di Charles Caradec ed Éva all’inizio, è abbastanza semplice: “Cercavamo di considerare le cose nella giusta prospettiva. Forse, col passar del tempo, saremmo riusciti a mettere radici in questo posto”. Si ritrovano circondati da famiglie: i Lecoq di Annabelle e Arnaud, poi i Taupin, i Lemoine, i Benani, i Bohat e e i Durand-Dubreuil e in un attimo si ricordano che gli altri sono l’inferno. Mentre Éva, per una paradossale legge del contrappasso, deve reinventare la storica Place des Fêtes, e pare già sviluppare un embrione di nostalgia per Parigi che “era troppo grande, non ci si imbatteva nelle persone per caso”, la Proprietà privata è minacciata dall’ingerenza dei vicini. L’alterazione è progressiva: scenate e silenzi si sovrappongono e si alternano e così riemergono i problemi del disturbo “ossessivo-compulsivo” di Charles. L’insediamento stesso che è “moderno ed etico” e avvolto nelle parole d’ordine dell’ecologia prêt-à-porter, sostenibilità su tutte, si dimostra una gabbia come tante dove impazzano noia e crudeltà, due bestie che vivono in simbiosi. Questo è il contesto in cui si sviluppano le nevrosi di Proprietà privata, poi Julia Deck si diverte a infierire sui personaggi, come se ogni lottizzazione contenesse un destino amaro più o meno deciso all’origine. A quel punto Éva e Charles hanno già complottato di uccidere un bel gattone che scorrazza da un giardino all’altro. Se i loro propositi truculenti restano una congettura, qualcun altro ha provvede a massacrare l’innocente felino. Da quel momento in poi, precipita tutto, come nota la stessa Éva: “La morte del gatto ha messo fine agli aperitivi. Ci dicevamo buongiorno e buonasera, ma nessuno faceva più lo sforzo di invitare gli altri a casa sua”. La tensione, maturata in una realtà ballardiana in sedicesimi, esplode in tanti piccoli disastri quotidiani e altrettante paranoie, sottoprodotti di uno “sradicamento totale e definitivo”. La periferia non è l’Eden e nella dimensione narrata da Julia Deck emergono le fibrillazioni di un processo di disgregazione che vede senza dubbio Éva nell’epicentro, ma che coinvolge tutta l’area residenziale, a partire da Annabelle (che scompare con il figlio). Il dettaglio sostanzioso di Proprietà privata è all’interno di una scelta inusuale: Éva è la narratrice che si rivolge a Charles delimitando così una zona intima e intangibile, una cellula refrattaria di un organismo più complesso e ancora in fase di definizione. Il risultato, ovvero il tono e lo stile che si accorda alla scrittura limpida e tagliente di Julia Deck, non concede nulla. Come diceva sua maestà Le Corbusier “nessuno può disporre del domani”, gli eventi incalzano Éva e Charles ed è difficile distinguere il senso di un habitat frutto di pianificazioni, regolamenti, prospetti, proiezioni e concessioni che sovrastano la Proprietà privata. Qualcuno deve aver sbagliato nel calcolare l’impatto ambientale e quello che succede (sparisce anche un cane, tra l’altro) lascia spazio soltanto ai luoghi comuni: la gente resta sulla soglia a fissare la strada e, sì, anche Éva e Charles salutavano sempre.
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