giovedì 10 ottobre 2024

William Dalrymple

L’etimologia del termine “loot” inteso bottino, risale ai tempi della Compagnia delle Indie Orientali (CIO) e non potrebbe essere diversamente. Per quasi due secoli una società privata ha saccheggiato le risorse del subcontinente indiano, spianando la strada all’imperialismo inglese, che poi avrebbe dominato fino al 1947. La storia è intricatissima: come un processo virulento la CIO si è intrufolata nelle ingarbugliate dinamiche della regione già a partire dal diciassettesimo secolo, prima come partner commerciale e poi come avamposto militare. Questa doppia e ambigua natura, di fatto una replica dell’apparato statale ma senza i contrappesi istituzionali, ha sconvolto a più riprese l’equilibrio fragile e cosmopolita dell’India. Come scrive William Dalrymple nell’introduzione: “Una società di capitali multinazionale era in procinto di trasformarsi in un’aggressiva potenza coloniale”. Le ataviche lotte per la conquista dei territori, dei tesori e soprattutto del gettito fiscale sono state l’humus perfetto per le intrusioni economiche e militari della CIO. William Dalrymple elenca campagne, battaglie, intrighi e congiure ,  rovesci, tradimenti e rivolte, massacri e carestie offrendo, grazie a un densissimo lavoro di ricerca, una ricostruzione fedele dei conflitti, una saga interminabile e sanguinosa che ha visto la CIO protagonista per la spregiudicatezza, il cinismo, l’avidità e la corruzione con cui si muoveva nell’intricato scacchiere indiano. Il racconto è avvincente, in tutta la gamma delle sfumature, dalle gesta bellica ai risvolti finanziari, William Dalrymple usa un tono quasi romanzesco per dipanare una realtà spinosa, a dir poco, ma alla fine è chiaro e impietoso: quando la CIO, “una società mercantile acquisì per la prima volta un potere politico reale e tangibile”, si dimostrerà una struttura fuori controllo che fomentava guerre, finanziava colpi di stato, tramava in continuazione senza alcun confine giuridico o morale, con l’obiettivo principale, se non proprio unico, di predare ogni risorsa per la società, e per gli azionisti. Adam Smith (non uno qualsiasi), la definirà “una strana assurdità, una compagnia-Stato” e il termine “anarchia” va inteso come caos (politico, militare, sociale, economico) da cui la CIO ha progressivamente tratto il suo enorme potere, con “spese militari fuori controllo e caos finanziario”. È necessario ricordare, come fa con estrema chiarezza William Dalrymple, che “l’inarrestabile espansione dell’impero indiano della Compagnia non sarebbe stata possibile senza il sostegno politico ed economico di questi gruppi di potere regionali e delle comunità locali. L’edificio della Compagnia delle Indie Orientali si reggeva sul delicato equilibro che essa seppe mantenere con mercanti e mercenari, nawab e Raja suoi alleati e, soprattutto, con i suoi docili banchieri”. Le condizioni geopolitiche e belliche si ripetono da un secolo all’altro finché all’alba del diciannovesimo secolo la CIO, cospirando in continuazione e alimentando eserciti di proporzioni bibliche, è riuscita, in un modo o nell’altro, a prendere il controllo dell’intera India. A quel punto però le disinvolte pratiche (diciamo così, giusto un eufemismo) di “colonialismo aziendale” avevano allarmato le istituzioni inglesi e la CIO venne nazionalizzata, rivelandosi alla fine soltanto la testa di ponte, tanto brutale quanto sacrificabile, dell’imperialismo e del colonialismo di sua maestà, ovvero di “una nuova e aggressiva concezione dell’Impero britannico in India come un’iniziativa non privata ma di Stato”. A William Dalrymple non sfugge un parallelo con le attuali multinazionali, avendo compreso che “nell’intima danza tra il potere statale e quello aziendale quest’ultimo, benché possa essere regolamentato, vi si opporrà con tutte le risorse di cui dispone” ed è così che il loro strapotere è in grado di influenzare stati e governi in ogni angolo del globo: una natura avida e rapace che si intravede già, secoli fa, nello sviluppo della CIO e del destino, suo e dei suoi uomini. Un libro imponente e importante.

mercoledì 9 ottobre 2024

Anthony Burgess

Hemingway nel discorso di accettazione del premio Nobel disse che “se è uno scrittore abbastanza in gamba, deve affrontare l’eternità, o la mancanza di essa, ogni giorno”. La biografia di Anthony Burgess sembra partire proprio da lì, spiegando che sebbene “i difetti dell’uomo alla fine abbiano mutilato l’opera, al suo meglio Heminway è una forza generatrice di ulteriori sviluppi pari a quella di Joyce, Faulkner o Scott Fitzgerald. E anche nel peggio ci ricorda che, per impegnarsi nella letteratura, bisogna prima impegnarsi nella vita”. Non si può dire che Hemingway non ce l’abbia messa tutta: l’aspetto fisico, fin dall’incipit, l’infanzia tratteggiata rispetto ai nodi famigliari, il suggerimento di Sherwood Anderson di andare a Parigi “dove, come dice Henry James, perfino l’aria è soffusa di stile”, gli incroci con James Joyce, Ford Madox Ford e Gertrude Stein raccontano una formazione che è stata tutta un’esperienza. Seguendolo, Burgess alterna i tratti storici a quelli critici, che riguardano i romanzi, i racconti e più in generale lo stile di Hemingway: la biografia è essenziale e in parte sbrigativa, ma funziona a livello introduttivo e contiene un po’ tutto: il carattere volubile, gli eccessi (nel cibo e dell’alcol), i viaggi e le peripezie, ma anche una rilettura approfondita del suo lavoro, come capita a Morte nel pomeriggio, “un ponderoso studio sulla metafisica della corrida”. La tauromachia vista da Hemingway è quasi un’anticipazione visionaria della guerra civile spagnola e Anthony Burgess si avvicina alla sua scrittura con genuina passione, ma non risparmia critiche attente e significative: “Hemingway non fu mai molto bravo come inviato di guerra. Il talento di romanziere lo spingeva a inventare, a organizzare la realtà in schemi estetici, a coltivare l’impressionismo che Ford Madox Ford incoraggiava a portare dalla letteratura nella vita reale”. Mentre si susseguono matrimoni e divorzi, avventure più o meno vere nel corso di due guerre mondiali, la pesca, la caccia e la boxe Burgess legge con scrupolo e senza esitazioni Di là dal fiume e tra gli alberi, analizza il successo raggiunto con Il vecchio e il mare, che “affronta il tema del coraggio mantenuto dinanzi al fallimento” e compie anche una cernita tra i fatti e le invenzioni che permette una conoscenza più che sufficiente tenendo anche conto che “la letteratura non è fondamentalmente invenzione: significa disporre entro modelli estetici le données di un’esperienza di vasta portata”. Senza dubbio, Hemingway rimane un profilo complesso, articolato e spesso contraddittorio: Anthony Burgess ha il pregio di trovare un ordine o, almeno, una coerenza nel corso di una vita caotica. Non è un’analisi risolutiva, ma almeno pone le basi per un ritratto dignitoso ed efficace, dove Anthony Burgess riassume così il senso di un’intera figura: “Hemingway non si accontentò di eccellere nel ruolo di cacciatore, pescatore, pugile e capo guerrigliero. Dovette trasformarsi in un mito omerico, il che significava posare e mentire, trattare la vita come un romanzo”. Su questo, il suo lavoro biografico incide nell’insieme con una sua precisione, anche nel rileggere i principali passi stilistici di Hemingway. Il pregio principale resta quella separazione piuttosto precisa tra la leggenda che si è costruito da sé, e l’effettivo valore dello scrittore che ha saputo trovare un nuovo modo di esprimersi: “Il fine artistico di Hemingway era originale come quello di qualunque altro intellettuale di avanguardia che dissertava nei caffè sui boulevard. Scrivere senza fronzoli, senza imporre il proprio modo di pensare, far sì che parola e struttura esprimano pensiero, sentimento e anche fisicità, sembra facile oggi, soprattutto perché Hemingway ci ha mostrato come farlo, ma non era facile quando letteratura significava ancora stile calligrafico in senso vittoriano, con abbellimenti neogotici, allusioni pedanti, una struttura intricata di frasi subordinate, la personalità dell’autore frapposta, timidamente o brutalmente, fra il lettore e l’opera scritta”. Molto accurata anche la descrizione del crepuscolo riportato da Anthony Burgess dove ricorda quello che diceva Hemingway, ovvero che “scrivere significa, nel migliore dei casi, una vita solitaria”, e su questo non si discute.