La domanda espressa dal titolo non solo è legittima, ma apre molti scenari importanti, che riguardano l’ambiente, la natura, la vita stessa. La risposta arriva subito, già nella presentazione di Robert Macfarlane quando dice che “è un viaggio attraverso un’idea che trasforma il mondo: l’idea che i fiumi siano vivi”. Non è una formula simbolica: il processo implicito a questo riconoscimento comprende forme di tutela che vanno dall’osservazione quotidiana fino allo sviluppo di un vero e proprio status legale. Robert Macfarlane si immerge (e non solo per via metaforica) nei fiumi, cercando di percepirne lo spirito vitale. Seguire la corrente nelle altitudini dell’Ecuador, senza piste e con l’ossigeno rarefatto, o attraversare l’atmosfera malata in India o immergersi nelle rapide in Canada comporta rischi, fatiche e pericoli che affronta di volta in volta senza perdere di vista il senso generale delle sue esplorazioni. Il coraggio, insieme alla curiosità, non gli manca e i suoi percorsi sono molto vicini alla terra e alle essenze che racconta con stupore e meraviglia inalterati. I reportage sono dettagliati e ricchi di riscontri emotivi e di scambi con gli ospiti e i compagni di viaggio. In una prima tappa in Ecuador, dove la foresta è minacciata dall’attività estrattiva, scopre una rete sotterranea di comunicazioni tra i funghi, un dettaglio da ricordare, nella considerazione complessiva degli esseri viventi con cui dobbiamo coabitare. In India, la devastazione ambientale ha ormai proporzioni apocalittiche perché le fabbriche chimiche e le centrali elettriche hanno reso irrespirabile l’aria e hanno cancellato i fiumi. La situazione è compromessa, ma Robert Macfarlane scopre un gruppo di attivisti che si prodigano per salvare l’esistenza delle tartarughe. In Canada, si avventura in una spedizione in kajak proprio dentro il fiume, circondato da una bellezza magica minacciata dalla continua costruzione delle dighe. È in quel momento che si entra nel flusso centrale di È vivo un fiume? e diventa protagonista l’acqua, l’elemento vitale per eccellenza. Alla passione delle descrizioni, si aggiunge un motivo ricorrente e pertinente che è anche la spina dorsale dei racconti di Robert Macfarlane. Intanto, si premura di precisare che “un fiume non è una persona, né una persona può essere un fiume. Ci sfuggiamo l’un l’altro in modi diversi”. È una distinzione fondamentale, per poter perseguire il proposito di riconoscere il fiume come “persona giuridica con il diritto di vivere”. L’idea di attribuire ai fiumi una consistenza riconosciuta dal diritto è qualcosa in più di un tentativo di salvaguardia ecologica, che pure non è rimandabile. Si tratta, come viene ribadito più e più volte, di prendere atto dell’esistenza di esseri “più-che-umani” e che la necessità, ormai impellente, di ritrovare una convivenza più attenta deve essere lo spunto, la scintilla per un altro modo di coabitare il pianeta dove ormai “la speranza è quella cosa fiumata”. Quello di Robert Macfarlane non è soltanto il tentativo di dare un voce alla natura, sia che si tratti di un grido di dolore e/o di un’ode all’armonia. Il fiume non deve diventare umano. Il responso all’interrogativo sottinteso da È vivo un fiume? (comprese le molteplici citazioni letterarie, da Ursula K. Le Guin ad Alexis Wright) è che deve crescere la sensibilità verso la pluralità degli esseri viventi. E non si tratta soltanto di trovare forme di protezione allo sfruttamento insensato che divora e distrugge tutto, ma anche di formulare nuove forme di pensiero, e altri spazi per l’immaginazione.
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