lunedì 26 febbraio 2018

Tim Winton

Qualcuno ha scritto che con questo libro Tim Winton ha prodotto un capolavoro dello storytelling. Dal canto suo, Thomas Keneally ha usato parole sensazionali per descrivere questo romanzo. Un altro scrittore, Rick Bass, che qualcuno ricorderà come autore del bucolico Un inverno nel montana ha detto che I cavalieri è “un libro stupendamente scritto che porta una vecchia storia verso nuove terre”. In realtà si tratta di un viaggio molto più complesso che parte e finisce nella mente di Fred Scully: la moglie è scomparsa, anzi svanita nel nulla, e la figlia non ha più parole per raccontargli come o perché. Lei e il padre s’incontrano in uno dei luoghi più ameni possibili, la hall di un aeroporto, e da lì partono per un’odissea tutta europea, scandita dalle strofe di Raglan Road, una canzone adatta a non dimenticare l’Australia. Mentre seguono fantasmi e ricordi vagabondando tra Parigi, Firenze, la Grecia e l’Irlanda, una storia sembra sfumare dentro un’altra, sfociando nel dramma dark inaugurato dalla visione gotica di una ventina di cavalieri in una novella d’amore. La danza degli spettri a quel punto incombe e diventa imperativo decidere “quanta distanza si vuole mantenere da loro, chiedendosi quante che sarà abbastanza, chiedendosi perché fa così male, il desiderio”. La dimensione visionaria si intromette con prepotenza, e accompagna verso snodi inesplorati che però trovano un’adeguata collocazione, se non proprio un’armonia, nella complessità della trama. Sempre brillante e seducente, I cavalieri è sicuramente il romanzo più ambizioso di Tim Winton per la ricchezza dei temi che s’intersecano (non ultimo il rapporto tra padre e figlia), per il coraggio di affrontare paesaggi distanti (e non solo geograficamente) e per l’equilibrio che gli garantisce comunque una certa leggerezza, anche quando la vita dei suoi personaggi è drammaticamente in cerca di una seconda chance e tutto quello che riescono a vedere è “all’orizzonte un pesce solitario, grande quanto un uomo schizza in aria con gli neri di paura mentre cerca di sfuggire al suo persecutore. Non finisce mai”. Quest’aria frizzante dipende dalla tante note musicali che si sentono salire pagina dopo pagina (e non per niente la processione è inaugurata da Tom Waits) dagli angoli delle strade, da qualche vecchio motivo che continua a tornare in mente, da un walkman che non manca mai. La musica per caso di Tim Winton funziona proprio così: apre piccole crepe nel romanzo e lascia filtrare l’immaginazione del lettore. Ormai verso il finale, tra l’altro, questo eccellente narratore con il volto dell’eterno bravo ragazzo si è divertito a infilare un paio di nomi emblematici. In forma di cassette acquistate nel più grande magazzino di Parigi, compaiono al momento giusto, Ry Cooder e gli Hoodoo Gurus. Il primo potrebbe essere Paris, Texas ed è fin troppo facile trovare una spontanea assonanza con I cavalieri. I secondi restano una divertentissima rock’n’roll band (australiana, per la precisione) che soltanto un autore curioso e per niente ridondante come Tim Winton poteva evocare.

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