La montagna incombe: basalto e rocce vulcaniche sono le quinte di una regione, quella del Massiccio Centrale, che resta selvatica e impenetrabile, come è chiaro fin dalle prime battute di Dalla montagna perduta (nella traduzione di Silvia Turato): “L’Alvernia è provincia francese di per sé, fuori da ogni determinazione, la qualità di ciò che è senza qualità, il centro vuoto attorno al quale tutto si organizza. In essa si vede lo sfondo di ciò che costituisce il luogo”. La mappa non è il territorio, che resta difficile da collocare data la composizione con “nessun paese, nessuna strada, solo poche e strette, niente fiumi, nessuna cima rilevante, quasi nessun bosco, niente che meriti di essere segnalato o trascritto. Ed è questo che può suscitare il desiderio di andare a vedere, vedere ciò che non c’è da vedere, vedere quel niente. Non se ne resterà delusi”. Tra alpeggi e fienagioni, la visita di Pierre Jourde non è né innocente né indolore: le radici del suo albero genealogico affondano lì, in “una specie di sospensione”. Il freddo e le ombre scivolano giù da “gole profonde, dove il vento non la smette di enunciare un appello incomprensibile” non rappresentano degli ostacoli così come il bicchiere di vino, tangibile e concreto, a condire le chiacchiere non è la fine. Il passato è onnipresente e il genius loci dell’Alvernia è tanto grezzo quanto complicato e Pierre Jourde si accorge che “è un paesaggio interiore. Non appartiene più all’oggi o al futuro. Ciò che noi vediamo non è più davvero lì, ma ha raggiunto un al di qua del tempo, dove l’usura infinita è la materia delle cose”. È raro trovare un viandante immerso in modo così assoluto nel suo viaggio al punto di riconoscere che “quei paesaggi non oppongono niente di determinato, è questo il segreto della loro magia. Ti avvolgono, ti prendono, e insensibilmente, ti portano via con loro, in una perpetua fuga immobile”. Questa spontanea trasmutazione avviene proprio a metà strada quando Pierre Jourde decide di fermarsi nell’antica casa di famiglia e la sua tappa negli altipiani prende una direzione metafisica. Nell’accavallarsi di racconti e aneddoti, che si perpetuano senza sosta, si percepiscono i rumori dei fantasmi che abitano (e abiteranno per sempre) tra quelle gelide mura. La sorpresa dura quel tanto che basta: gli spettri sono ospiti funzionali all’accurata perlustrazione di Pierre Jourde, secondo cui “bisogna, come una necessità, che il più intimo dei luoghi sia la dimora del mostro, cioè dell’apparizione, dell’apparizione in sé, di ciò che si mostra come l’incarnazione spettacolare dell’incomprensibile”. Il florido raccolto delle iperboli raggiunge il suo culmine come una giornata di lavoro sui versanti e tra le malghe: Dalla montagna perduta è “una maniera di venire alle mani con il luogo e il momento, una lotta e una connivenza con il tempo e lo spazio” dove gli anni dell’infanzia rimangono magnifici e inarrivabili, un po’ come le creste rocciose che puntano alle nuvole. Il confronto sarà comunque impari e Pierre Jourde, per niente spaventato, sente e condivide in modo intimo quella frattura, lasciandosi trasportare nella descrizione delle funzioni dell’ombrello o della lamentela o di altre parti di vita quotidiana nella convinzione, con più di un fondamento, che “ogni persona, ogni casa, ogni famiglia, ogni borgo, è un’inestinguibile matrice di storie che, mescolandosi, si moltiplicano, si contraddicono, finiscono per formare il vero corpo di quel paese, la sua carne di fremente chimera”. Dalla montagna perduta non è soltanto l’apologia degli altipiani dell’Alvernia trasformati in una sorta di mistero gaudioso, ma anche la celebrazione di un metodo di osservazione, di cammino e di scrittura capace di portare ben più lontano perché “non ci si riprende facilmente dal fatto di aver vissuto nella familiarità dell’incanto”. Sarebbe piaciuto a John Berger, e non poco.

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