mercoledì 4 marzo 2020

Mark Blake

La storia è stata raccontata più volte, ma Mark Blake ha trovato un modo per comprimerla in un bel libro, un lavoro collettivo che si sforza di saldare molte giunture tra gli USA e il Regno Unito e quindi facendo anche un po’ di ordine cronologico e dunque storico nell’essenza del punk. L’introduzione di Blondie alias Deborah Harry è lì a dimostrarlo e non ha bisogno di mentire (non più, ormai): “Il punk trapelava dalla musica che suonavi, dal modo in cui ti vestivi e dai posti che frequentavi. Era inevitabile che finisse per lasciare il segno. Sebbene ora chiunque ci sappia fare riesce a distinguersi dalla massa, il punk è tutta un’altra cosa ed è ancora tra noi. È stata un’esplosione: la prima vera espressione di rottura”. Punk. Tutta la storia si limita all’esperienza di Londra e New York attorno al 1977, prima e/o dopo. Gli aggiornamenti più recenti riguardano la reunion dei Sex Pistols del 1996, Joe Strummer, nel decennale della sua scomparsa, i Black Flag e i Green Day. È inutile cercare di stabilire dove e quando sia nato perché il punk, come ogni fenomeno culturale, si è evoluto e si è moltiplicato in più direzioni. È più interessante scoprire e riscoprire l’eccentricità delle connessioni, di strambe e fortunate soluzioni e di una rivoluzione nel gusto, nell’attitudine, nelle idee che ha segnato la musica alla fine del ventesimo secolo. Tutta la storia del punk rimbalza tra le due sponde dell’Atlantico in un frenetico sovrapporsi di immagini che spesso dicono molto di più. Il libro è esaustivo senza essere complicato: fedele allo spirito punk si accontenta di ripristinare le cronache e le vicende dei protagonisti e dei loro dischi attraverso le ricostruzioni in prima persona di Nick Kent o Gary Valentine e una pattuglia di cronisti molto affidabili, tra cui Peter Doggett, Pat Gilbert, Charles Shaar Murray, Ira Robbins. Le ricostruzioni sono frammentarie, immediate, come tante istantanee fedeli a una rivolta che è bruciata in fretta e furia. Le immagini rispecchiano le parole, perché il punk è stato apparenza e superficie, ma in prospettiva c’è tutto un immaginario che con il tempo ha acquistato una dimensione leggendaria. I Ramones in metropolitana con le chitarre nelle buste di plastica, Richard Lloyd dei Television in ospedale con flebo e sigaretta, le spogliarelliste degli Stranglers, Shane McGowan delirante nel pubblico e steso per terra davanti a Mick Jones, il sangue di Sid Vicious, le pose dei Clash (i più fotogenici), il CBGB a New York (“Linda Ronstadt venne a sentire i Ramones. Infilò la porta con le mani sulle orecchie”, ricorda Hilly Kristal) e i club a Londra fino ai bricolage di Jamie Reid che indicò una linea grafica partendo dal nulla. Come ammette lo stesso autore dei collage che hanno distinto molti materiali punk, la scelta di usare tagli e ritagli di giornale dipendeva dalla miseria in cui era costretto a muoversi. Un tratto comune a tutto il punk, che è stato un movimento partito da “meno di zero”, come direbbe Elvis Costello. La sua forza è stata quella che spiega il deus ex machina e uno degli artefici principali di tutto il casino, Malcom McLaren, nella postfazione: “Il punk ha dato alla gente la possibilità di essere un abbagliante fallimento piuttosto che un tiepido successo”. Non si poteva dire meglio.

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