lunedì 11 febbraio 2019

Sylvie Simmons

È curioso che a occuparsi di questa solida biografia di Leonard Cohen sia una casa editrice rinomata piuttosto per la scacchistica. E’ solo in piccola parte una coincidenza. La sua vita è stata una partita a scacchi con l’avversario più imprevedibile, preparato, temibile e geniale: se stesso. Una ricerca caotica, disordinata e per nulla consolatoria o elegante come vorrebbe chi sta cercando di costruirgli attorno un monumento o una sorta di sacralità. Leonard Cohen è un personaggio contraddittorio e controverso, estremo persino, nonostante le apparenze, i Borsalini e i gessati e i modi zen. Un essere umano, troppo umano, conflittuale e problematico, come tanti e più di altri, con l’aggravante delle deviazioni artistiche e di una particolarissima sensibilità. Se non altro, la biografia di Sylvie Simmons (una reporter abituata ai casi complessi visto che ha seguito da vicino anche il crepuscolo di Johnny Cash) non nasconde la polvere sotto il tappeto. Va molto vicino, più di tanti altri, a comprendere la sovrapposizione tra arte e vita nella storia di Leonard Cohen, che è stata tutta meno che indolore e grazie a un linguaggio forbito e scorrevole, a una fitta segnalazione di informazioni (anche scomode) e a una serie di inquadrature che scrutano il personaggio in gran parte delle sue declinazioni. Il rapporto con la scrittura, dall’ambizione dei romanzi alla natura più immediata delle canzoni, i legami intimi con le droghe e con le religioni e infine la ricostruzione dei rapporti discografici, dall’intervento di John Hammond alle recenti celebrazioni. Anche nel caso specifico, Sylvie Simmons non cede alle lusinghe dell’agiografia e riporta pareri dissonanti. Quello di Walter Yetnikoff, per esempio, che gli disse in modo piuttosto brutale: “Leonard (Cohen), sappiamo che sei grande, ma non sappiamo se ci servi a qualcosa”. L’episodio è significativo perché Walter Yetnikoff è uno che per lunghissimi anni ha avuto in mano il destino della Columbia Records e che poi si è scoperto, (una volta andato in pensione, qualche anno fa e per sua stessa ammissione) alcolizzato e cocainomane disse. Piccola parentesi, per gli appassionati di industria discografica, il personaggio è molto interessante perché secondo la versione politically correct di Dave Marsh la prima volta che Walter Yetnikoff sentì Nebraska si commosse al punto da rievocare i suoi ricordi d’infanzia. Secondo un’altra versione, una volta riavvolto il nastro di Nebraska (Nebraska), schiacciò il sigaro nel posacenere e poi disse a Springsteen e a Jon Landau, seduti davanti a lui: “Vedremo cosa si può fare”. Per fortuna Sylvie Simmons si ricorda con una certa frequenza che Leonard Cohen non sarebbe stato Leonard Cohen se non avesse incontrato la musica e lo sfavillante pianeta del rock’n’roll e dedica il giusto spazio a raccontare la realizzazione dei dischi, ai rapporti con i musicisti e in particolare alla natura del songwriting di Leonard Cohen che cerca di spiegare così: “In genere trovo che la canzone nasca suonando la chitarra, semplicemente giocherellando con la chitarra. Davvero, basta provare diverse sequenze di accordi, tipo suonare la chitarra e cantare tutti i giorni fino a quando non mi ritrovo a piangere, al che smetto. Non è che pianga a dirotto; sneto semplicemente una lieve morsa alla gola o qualcosa del genere. Allora so di essere in contatto con qualcosa che è un po’ più profondo rispetto al punto in cui sono partito e ho preso in mano la chitarra”. Oltre agli anni ruggenti, Sylvie Simmons segue Leonard Cohen fino a oggi, senza esclusioni di colpi (c’è anche gran parte della sanguinosa diatriba che l’ha opposto a Kelly Lynch, già amante, manager e factotum che gli ha dilapidato tutto il patrimonio, una roba di svariati milioni di dollari) e concede ampi sprazzi della sua poesia che in fondo si racchiude in questa dedica ad Anjani, la sua più recente musa: “Penso sempre una canzone, da far cantare ad Anjani, sarà sulle nostre vite insieme, sarà molto leggera o molto profonda, ma nulla che non sia l’una o l’altra, io scriverò le parole, e lei scriverà la melodia, io non potrò cantarla, perché salirà troppo, lei la canterà splendidamente, e io correggerò il suo canto, e lei correggerà la mia scrittura, finché non sarà più che splendida, poi la ascolteremo, non spesso, non sempre insieme, ma di tanto in tanto, per il resto delle nostre vite”. Sostituite il nome di Anjani con una delle tante donne amate, immaginate, create, inseguite da Leonard Cohen e avrete un bel riassunto lirico della sua biografia. La si può ottenere anche parafrasando quello che lui stesso scriveva per Beautiful Losers perché la sua vita, almeno come l’ha ricostruitia Sylvie Simmons, è stata “una storia d’amore, un salmo, una messa nera, un monumento, un satira, una preghiera, un grido, una mappa di luoghi sconfinati, uno scherzo, un affronto di cattivo gusto, un’allucinazione, una noia, un irrilevante sfoggio di virtuosismo malato. In breve, una sgradevole epopea religiosa di incomparabile bellezza”. Non poteva starci tutto, va da sé, e ne viene fuori uno strano mondo di monaci e avvocati, pubblici ministeri e chitarristi, donne (un’infinità di donne), poeti e scrittori, Judy Collins e Nico, il Chelsea Hotel e Idra, tutti i luoghi che ha celebrato in un modo o nell’altro nei suoi passaggi vitali, nel suo obliquo muoversi da un’identità nascosta a se stesso, e viceversa. Poteva essere Bob Dylan, o Allen Ginsberg. Poteva diventare Philip Roth. Ha deciso di essere Leonard Cohen.

Nessun commento:

Posta un commento