Entrare in Pellegrini del
sole è come penetrare in un igloo ricoperto da più livelli di neve
e di ghiaccio che si sono sedimentati uno sopra l’altro. La parte
superficiale dell’involucro è un romanzo distopico e apocalittico
che ipotizza un’incombente glaciazione. L’ipotesi accredita già
Jenni Fagan in una dimensione più oculata rispetto agli strilli del
riscaldamento del pianeta, perché come varie fonti scientifiche
concordano, quella è soltanto la causa, gli effetti rimangono
imprevedibili. Tra questi, il rischio di una nuova era glaciale, che
dipenda o meno dalla sconsideratezza del genere umano, era paventata
parecchi anni fa da Kary Mullis, premio Nobel per la chimica nel
1983, nel suo Ballando nudi nel campo della mente, che rimane una
lettura tanto provocatoria quanto intelligente. Ammesso lo scenario,
che tra l’altro ha tutte le sue valenze metaforiche in funzione
dell’isolamento, della solitudine e del critico bollettino
meteorologico dei rapporti umani, sotto e dentro la coltre di gelo si
snoda una contorta saga famigliare costruita attorno a una serie di
formidabili personaggi femminili (Gunn, Constance, Vivienne e
Stella). L’epicentro su cui siedono i Pellegrini del sole, è
proprio la storia di Stella. Stella è diversa, è incastrata in un
albero genealogico che serpeggia da una lontana isola scozzese fino a
Londra, irto di segreti e misteri. Nel villaggio di roulotte e camper
dove si è rifugiata con la madre, Constance, vivono “come se tutto
ciò che un tempo era in ordine fosse andato in malora, così
velocemente che nessuno riusciva a reggere il passo”. Non a caso
campano campano riciclando, restaurando e rivendendo mobili che
trovano nella discarica. Per inciso, viene da pensare che il vero
problema dell’umanità sia lo spreco, piuttosto che le variazioni
climatiche. Quando nella stralunata comunità di Clachan Falls, in
cima alla Scozia, arriva Dylan McRae, la sfida della mera
sopravvivenza è complicata dallo sciogliersi degli equilibri. Dylan
(attenzione al nome) proviene da Londra dove ha ereditato il
fallimento di un cinema d’essai, il Babylon, gestito dalla madre e
dalla nonna (tra i registi programmati con maggior regolarità,
Werner Herzog), entrambe scomparse in rapida successione. Se il
cinema è un lascito di Gunn (la nonna), da Vivienne (la madre)
riceve una roulotte a Clachan Falls ed eccolo lì, tra i Pellegrini
del sole. Dylan è alto, introverso, riservato e colto, tutte qualità
che servono fino a un certo punto quando “il mondo è un luogo
incantato fatto tutto di ghiaccio”. Con il termometro che ormai non
sa più cosa indicare spostarsi diventa sempre un rischio perché
l’ipotermia fa perdere l’orientamento. Restare chiusi in casa,
nei caravan dove lo spazio è razionato, porta a impazzire. Rimane
soltanto una drastica riduzione all’essenziale delle funzioni
vitali: provare a restare al caldo dentro strati di vestiti e
coperte, farsi venire i calli a furia di spaccare legna, ascoltare
gli aggiornamenti nella speranza di intercettare una buona notizia
che non arriva. La costruzione di Jenni Fagan è semplice e
progressiva: si limita a seguire i suoi protagonisti nella faticosa
lotta per la sopravvivenza, eppure nel linguaggio dissemina un sacco
di strambe e colorite associazioni dylaniane (nel senso di Bob Dylan)
che forniscono tono e fragranza al racconto. Pur essendo declinato al
femminile, in Pellegrini del sole, l’elemento maschile è
catalizzatore di tutte le svolte: alla ricerca di se stessa, Stella
trova un importante interlocutore in Dylan, che a sua volta diventerà
presto un amico (e qualcosa di più) anche per Constance. In qualche
modo bisogna pur inventarsi un modus vivendi, ed ecco che Stella
diventa Stella e Constance accetta Dylan che si ingegna a distillare
gin. Sarebbe bello pensare che vissero felici e contenti, ma il
passato incombe e con meno cinquanta a pochi giorni dalla primavera,
il futuro è tutto da scrivere.
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