domenica 25 agosto 2019

Adonis

Adonis è un poeta immaginifico e cosmopolita che parte e parla con le parole sapendo che “le parole dimenticano le parole, è raro che le parole sappiano parlare”. È un architetto capace di vedere una forma nei versi, un cantante che sa intonare una canzone e tradurla in immagini, un viaggiatore che dentro la bellezza e la crudeltà del tempo che scorre sa che “la poesia ha veramente un proprio tempo all’interno del tempo, si rinnova in continuazione come la fenice che rinasce dalle sue ceneri. Con questa differenza: la rinascita è il rinnovamento del passato, non c’è passato in poesia, è il futuro che sempre persiste nel presente”. Prendimi, caos, nelle tue braccia attraversa tappe reali in un viaggio (“Vago nei miei passi, io assedio me stesso”) che comprende il monte Ararat, Londra, la costa orientale americana, un ricordo di Beirut (perché “la memoria è un laboratorio dove duplichiamo le nostre passioni”), Shangai e Parigi. Le tappe simboliche, dal diluvio universale alla moderna follia, sono riportate in appunti frammentari perché Adonis si interroga spesso (“Come guardare attorno a me e vedere ciò che mi vede e dire ai miei occhi di leggermi?”) e “la strada inventa la strada”. Le mete e le dimensioni delle città sono relativa come illustra lo stesso Adonis: “Non amo la città immersa nelle sue perle, amo la città mare di erranza irraggiungibile e senza fine, venti scatenati che non si sa come siano iniziati e come diverranno, o come sono giunti, amo la città tessuta dai suoi misteri, preferisco passare il tempo in compagnia della gente, procedendo come un unico fiume, ciascuno singolo e solo”. È lì che alle città e ai luoghi reali, si sovrappongono le costruzioni dell’immaginazione: “Mi sembra di frequentare ancora le città invisibili nei luoghi dell’illusione, mi sembra di appartenere ancora a una stirpe lontana, a linguaggi che improvvisano i confini. Allora, mi sembra di dover continuare a viaggiare verso altre rive come semenze che il tempo sparge e vengono raccolte dalla mano del vento”. A quel punto, ammette Adonis, “forse per meglio vivere e anche scrivere bisogna che tu inizi a combattere te stesso, a distruggere i tuoi confini”, un proposito che conduce senza esitazioni alla destinazione finale: “Costruirò un paese e darò a ogni paese il diritto di entrarci, il diritto di abitarci senza gratitudine e senza catene, l’inizio della terra è sogno”. In questa presa di coscienza prende il forma il concetto di “epoca” (“Epoca. Clinica misera, ecco il cielo arrampicarsi come edera sui suoi muri. L’indifferenza sarà forse l’alfabeto del futuro? Fiorirà la pietra? Allora apri la tua ferita verso l’alto e stenditi tra le sue braccia”) che parte dall’apocalisse per appuntarsi tutte le fratture, le violenze, le efferatezze (“Non abbiamo attorno a noi che una terra seminata di ferite, cieli lacerati, che si dilaniano l’un l’altro”), le cuciture e d’altra parte le osservazioni che delineano così la tensione di un “caos” con più volti: “Hanno ferito le ciglia dell’orizzonte e richiuso su di loro le tende”. I tratti delle concretezza (civile) si alternano a ondate regolari con l’evoluzione lirica fino a quando Adonis non si chiede se, in definitiva, “la verità della cosa non è forse nel canto che la canta?”, e la domanda in sé ritorna all’essenza di una poesia fatta di parole, che “si organizzano in fuochi, in rovine, attaccano, assediano, estirpano. Parole-spade, parole-prigioni, parole-tombe, le lettere stanno per agonizzare e l’inchiostro per trasformarsi in lacrime e sangue. Lo spazio è fustigatore”. Adonis invoca allora proprio la parola, come se “potesse singhiozzare, lacerarsi, smarrirsi, denudarsi, affamarsi, potesse marciare fino a grondare di sudore, cadere sfinita, potesse sospirare, accennare, gridare, sanguinare, se potesse aprire un cammino nel cammino”. È l’elemento, primo e ultimo di quella poesia che “accende la sua lanterna ogni giorno per leggere quel che le sue sofferenze hanno scritto per scrivere quel che le sue sofferenze hanno letto”, e Adonis ne esplora i limiti sapendo che “amiamo i riflessi nell’ombra, ci vediamo ciò che traduce i nostri fini: la vita è vana, la lingua è casa della saggezza. Ma nessuno padroneggia questa lingua”. Il bilancio, alla fine, è limpido, grazie alla lucidità di Adonis che non prende in considerazione “né perdita, né profitto, ma la saggezza di partire nell’ebrezza della visione e dello sguardo. Dove scopriamo che l’amore e la poesia sono in ciò che vediamo e in ciò che non vediamo, fraternizziamo, con il rumore del mare e il silenzio: il silenzio della terra e il silenzio della pietra”. Prendimi, caos, nelle tue braccia è qualcosa in più di un bellissimo libro di poesia: è un manuale molto preciso per un saggio uso delle parole.

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