Il cielo sopra Berlino è tumultuoso e il ritratto di una famiglia, quella di Edgar Selge, triste a modo suo, ne è il riflesso spontaneo, mutevole ed elettrico. La condizione iniziale vede protagonista, su tutti, il padre che è il direttore di “un carcere prussiano costruito a regola d’arte” e in precedenza ha gestito, con gli alleati, la prigionia degli ultimi gerarchi nazisti. Autoritario, e violento (anche incestuoso, per non farsi mancare niente), coltiva l’ossessione per la musica da camera costringendo moglie e figli a seguirlo verso una dimensione irraggiungibile. Sì, perché se all’inizio “in un battito di ciglia, un’idea musicale esplode in un vortice di forme. L’energia si moltiplica. Qualcosa si è risvegliato, ha scoperto le proprie possibilità, e ora che è stato disturbato non lo si può placare. È una traccia che divora la vita”, poi ritmo, intonazioni, sincopi, note e accenti devono essere perfetti e ogni esecuzione deve essere comprensiva di “sforzo, duro allenamento, a volte persino umiliazione. La gioia arriva semmai alla fine, come una sorta di ricompensa”. Prima, è molto improbabile che succeda qualcosa e l’assillo per la musica concepita come una forma rigida, è solo una gabbia protettiva, ma pur sempre una gabbia. Edgar soffre il padre, facile ai ceffoni e alle angherie, e coltiva un rifugio immaginario dove si crede Kesserling, riesumando e rielaborando i fantasmi dei bombardamenti e dei campi di concentramento. La memoria è una condanna capitale: l’ombra luttuosa del nazismo, l’ambiguità delle connivenze, i tentativi di ripristinare lo spirito di una nazione definiscono l’esperienza quotidiana non meno delle macerie, dei limiti economici e, più di tutto, dell’incognita del futuro. Questi sono gli argomenti che aleggiano e sono definiti dalle figure adulte, che Edgar osserva con scrupolo, cercando di comprenderli. Non è facile in condizioni cosiddette normali, perché “tendiamo sempre a pensare che i tempi cambino. Ma è vero solo a metà. Le persone restano uguali”, figurarsi a Berlino, dopo la fine della seconda guerra mondiale. È lì che Edgar alias Etja esce dagli schemi e, noncurante delle sberle in arrivo, si dedica al cinema, si innamora e, non corrisposto, combina un disastro, uno dei tanti, fino a scoprire che “la vita è un edificio fragile, adesso lo sappiamo, e possiamo meravigliarci di essercelo dimenticato”. La scrittura è farcita di riferimenti, con I fratelli Karamazov, Shakespeare, Rembrandt, Mozart e Proust in prima fila, ma è lineare nello stile, per quanto Edgar Selge continui a saltare per linee temporali non coerenti. Il suo sguardo si trasforma nel corso degli anni e, tra un flashback e l’altro, risale l’albero genealogico segnato dai conflitti mondiali, come se l’intera schiera di parenti soffrisse di disturbo da stress post-traumatico. Finalmente ci hai trovati (nella traduzione di Angela Ricci) è una matrioska che Edgar Selge svela un pezzo dopo l’altro. L’amore, il dolore, le incomprensioni, le speranze sono incapsulate e sfuggenti, tanto da rendersi necessaria un’avvertenza esplicita: “Mi piacerebbe che la vita e le sue circostanze vi si imprimessero così tanto, che a partire da quei tratti fosse possibile ripercorrere a ritroso le loro storie. Ma la vita sui volti cresce in un altro modo. È invisibile. Al massimo si può intuire la forza degli eventi passati, ma non di più”. Assecondando il punto di vista di una giovane anima ribelle, Edgar Selge supera i risvolti autobiografici e con Finalmente ci hai trovati dimostra che esiste ancora la possibilità di raccontare “le onde della vita”, ma anche di mettere in discussione tutto: patria, famiglia, istituzioni, tempo e storia. Per essere un esordio, anche un po’ avanti negli anni, non è poco.
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