mercoledì 8 gennaio 2020

David Ambrose

Rick è un uomo realizzato. Ha una bella moglie, Anne, che adora e da cui è ricambiato. Hanno un figlio e sono felici. Ha un avvocato, Harold, per amico e gli affari vanno a gonfie vele. Tutto sembra perfetto finché un giorno, nel bel mezzo di un’importante riunione questo castello di certezze comincia a scricchiolare. Prima vagamente, poi crollando rumorosamente, il mondo idilliaco di Rick si dissolve proprio in quell’istante perché lui viene rapito da una visione. Una sensazione indescrivibile, una forza arrivata dal nulla che Rick avverte così: “Forse più che sapere qualcosa, ero stato colto da una impellente necessità. Invece di fermarmi a pensare, reagivo senza comprendere di preciso a che cosa. Ero sospinto, ecco, proprio così, sospinto, da una forza che non era né fisica, né mentale. Quello che stavo facendo doveva assolutamente essere fatto. Era più di una convinzione, era qualcosa di inevitabile”. Giusto il tempo per capirlo e Rick è già sulla strada, dove vede la 2CV della moglie schiacciata da un camion. Lei, Anne, è imprigionata nelle lamiere contorte, mentre qualcuno sta salvando il figlio, Charlie. Una scena atroce degna del miglior J. G. Ballard e potete quel tanto che basta perché la vita e il mondo di Rick si vaporizzino in un solo, lungo attimo. È comprensibile, ma non finisce qui, perché quando la patina di irrealtà che lo circonda si dissolve per lui è tutto cambiato, come se fosse piombato in un’altra dimensione. Nessuno lo chiama più Rick, ma Richard. Anne gli dice che non hanno mai avuto figli. Harold, l’amico avvocato di una volta sembra essere sparito nel nulla. Ogni punto di riferimento della vita precedente è scomparso e Rick e Richard si disputano lembi della stessa identità. Uno è la proiezione dell’altro e le voci si intersecano e si sovrappongono: “Ogni minuto in più che passavo assieme a quest’uomo faceva aumentare il mio disprezzo per lui. Quando si guarda allo specchio, io distolgo lo sguardo, solo metaforicamente, certo, perché non ho gli occhi. Ma quello che faccio è evitare il contatto con quelle parti del suo cervello che registrano, per mezzo degli occhi, il suo riflesso nello specchio. E in particolar modo evito quelle zone del suo cervello che emettono fremiti di compiacimento davanti a quello che vedono”. Si capisce perché l’unica persona che pare disposta ad ascoltare Rick è Emma, una psichiatra cieca che lo conduce lungo le impervie strade di un vero e proprio incubo. Romanzo ad altissima tensione psicologica, L’uomo che credeva di essere se stesso sembra un film di Alfred Hitchcock tradotto in narrativa: il tema del doppio viene riletto da David Ambrose con un’arguzia sottile e pungente. Rick e/o Richard è sempre la stessa persona ed è la percezione della realtà (o forse la realtà stessa) a determinare, di volta in volta, le sue personalità, la sua ombra. L’incidente iniziale ha, una volta giunti alla fine, un carattere rivelatore perché sia Rick che il suo doppio hanno gli stessi problemi di tutti noi: devono dimostrare di avere ragione, “perché è tutto ciò che conta nel mondo della realtà e del buon senso quotidiano”. Se questo è già difficile (a volte impossibile) per i comuni mortali, figurarsi per un incorporeo doppelgänger ed è proprio per questo che L’uomo che credeva di essere se stesso, oltre ad essere un ottimo romanzo, è anche una lucidissima riflessione su chi siamo e su chi vogliamo o crediamo di essere.

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