lunedì 24 febbraio 2020

Bruce Chatwin

Attraverso Le vie dei canti, la mente nomade e irrequieta di Bruce Chatwin, trova una sua definitiva collocazione, accolta quasi come una benedizione quando dice che “di notte, mentre vegliavo sotto le stelle, le città dell’occidente mi parevano tristi e aliene, e le pretese del mondo dell’arte assolutamente idiote. Qui invece avevo la sensazione di essere tornato a casa”. Il distacco si rende necessario perché, nelle profondità dell’emisfero australe, il viaggio e il romanzo che lo racconta si evolvono in un’epifania che sorprende Bruce Chatwin con “l’impressione di un uomo che in quel mondo segreto era entrato dalla porta di servizio; che aveva visto la costruzione mentale più sorprendente e intricata del mondo, una costruzione che faceva apparire le conquiste materiali dell’umanità come altrettante quisquilie, ma che, in qualche modo, non si lasciava descrivere”. Ogni odissea ha un punto di partenza e Le vie dei canti prendono forma da quei miti aborigeni che “narrano di leggendarie creature totemiche che nel tempo del sogno avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano, uccelli, animali, piante, rocce, pozzi, e col loro canto avevano fatto esistere il mondo”. Il sottile e profondo legame etimologico tra la creazione e la designazione riflette l’impellente necessità di dare un nome alle “cose”, di riconoscere un territorio, di identificare l’inizio e la fine. All’origine, il potere del canto è inestimabile perché erano proprio “i canti, non gli oggetti, il principale strumento di scambio. Il baratto degli oggetti è la conseguenza secondaria del baratto dei canti”. Un canto “faceva contemporaneamente da mappa e da antenna. A patto di conoscerlo, sapevi sempre trovare la strada”, e seguendo Le vie dei canti, Bruce Chatwin scopre che gli uomini “dovevano imparare a vivere senza gli oggetti. Gli oggetti riempivano gli uomini di timore: più oggetti possedevano più avevano da temere. Gli oggetti avevano la specialità di impiantarsi nell’anima, per poi dire all’anima cosa fare”. Da lì, il suo walkabout lo porta a considerare altre prospettive, che riflettono in misura maggiore condizioni reali, piuttosto che leggende ancestrali. La distanza globale serve a Bruce Chatwin per vedere che “quasi tutti noi, che eroi non siamo, nella vita perdiamo il nostro tempo, agiamo a sproposito e alla fine siamo vittime dei nostri vari disordini emotivi”, così come riesce a maturare la convinzione che “la selezione naturale ci ha foggiati, dalla struttura delle cellule cerebrali alla struttura dell’alluce, per una vita di viaggi stagionali a piedi in una torrida distesa di rovi o di deserto”. A quel punto Le vie dei canti impongono un’accelerazione nel processo di identificazione tra l’uomo, gli antenati e i sentieri che hanno tracciato cantando, fusi in un solo destino. Al viaggiatore alias Bruce Chatwin, che “aveva capito il nesso fra il canto e la terra e voleva trovare nel canto, andandosene alle radici, la chiave per svelare i misteri della condizione umana”, resta la sensazione di essersi consumato in “un’impresa impossibile”, e senza alcun ringraziamento. Nello stesso modo, le voci primitive della creazione “avvolsero il mondo intero in una rete di canto; e infine, quando ebbero cantato la terra, si sentirono stanchi. Di nuovo sentirono nelle membra la gelida immobilità dei secoli. Alcuni sprofondarono nel terreno, lì dov’erano. Altri strisciarono dentro le grotte. Altri ancora tornarono alle loro dimore eterne, ai pozzi ancestrali che li avevano generati. Tutti tornarono dentro”. Alla fine, Le vie dei canti appartengono al regno dell’invisibilità che Bruce Chatwin ha inseguito con la magia di uno sguardo curioso, insaziabile, forse ingenuo, ma unico e originale, destinato a restare nel tempo come un classico.  

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