giovedì 11 novembre 2021

J. G. Ballard

Molte visioni di Ballard partono o arrivano dalla linea che tracciava La mostra delle atrocità nel 1970, a cominciare da Crash che è una sua diretta estrapolazione. È una rivelazione che scoperchia e azzera molti luoghi comuni di quegli anni, visto che “sotto la superficie scorrevano correnti più cupe. La ferocia della guerra del Vietnam, il senso di una colpevolezza pubblica che aleggiava sull’assassinio di Kennedy, le perdite umane nella scena delle droghe pesanti, il pervicace tentativo della cultura dell’intrattenimento di ricacciarci nell’infanzia”. La radiografia dei tempi è impietosa: Ballard è un voyeur con un quoziente intellettivo allucinante, capace di disquisire senza sosta di chirurgia plastica e stardom system, di quasar e di architetture autostradali, del Vietnam e della terza guerra mondiale, dei quadri di Max Ernst e delle sculture di George Segal in un solo flusso feroce e inafferrabile perché come scrive William Burroughs nella prefazione: “La linea di demarcazione fra paesaggio interno e paesaggio esterno è crollata”. L’apocalittico cut-up ballardiano si rivolge a un’era ormai trapassata, ma che si tramanda come un suono dello spazio interstellare, profondo e infinito. Si capisce la costruzione casuale, ma matematica: come ha detto lo stesso Ballard in I miracoli della vita, era “un approccio frammentato come il mondo che il libro descriveva” e comprende schegge, sovrapposizioni, istantanee, libere associazioni e le fughe mentali dei protagonisti, nonché le “catastrofi psichiche” di un’intera dimensione collettiva. In quest’ottica il culto della personalità diventa uno degli snodi fondamentali che La mostra delle atrocità attraversa: “Si è verificata una sorta di banalizzazione della celebrità: oggi la fama che ci viene offerta è istantanea, pronta per l’uso, e ha il potere nutritivo di una zuppa in scatola. Le serigrafie di Warhol mostrano questo processo in atto. I suoi ritratti di Marilyn Monroe e di Jackie Kennedy sottraggono alla vita di queste donne disperate la loro tragedia, e la sua tavolozza lucida e brillante le restituisce al mondo innocente dei libri colorati per bambini”. La soverchiante prepotenza delle immagini conduce direttamente al ruolo del corpo umano che La mostra delle atrocità viviseziona in continuazione e con convinzione fino all’infinitesimale dettaglio anatomico, anche se in realtà a Ballard basta molto meno per spiegare come “nell’epoca postwarholiana un singolo gesto, accavallare le gambe, per esempio, può diventare più significativo di tutte le pagine di Guerra e pace. Secondo le coordinate del ventesimo secolo la crocifissione, per esempio, verrebbe rimessa in scena come un autodisastro concettuale”. La conseguenza immediata è un’interpretazione del sesso (“il linguaggio più negoziabile di tutti”) che riconduce a un contesto più ampio, meno banale dell’erotismo patinato e dell’ossessività della pornografia, dove Ballard afferma: “Senza speranza di fronte al nuovo, ma delusi da tutto quello che non ci è familiare, noi ricolonizziamo tanto il passato che il futuro. La stessa tendenza si coglie nei rapporti personali, nel modo in cui ci aspettiamo che la gente confezioni se stessa, le proprie emozioni e la propria sessualità in forme attraenti e di richiamo immediato”. Nella sua stessa struttura La mostra delle atrocità è una provocazione, incluso il sottotesto delle note, quasi un’ulteriore deviazione di percorso: del resto se “la forma non rivela più la funzione”, non resta che guardare attoniti ai “disastri mimetizzati”, alla geografia degli incubi urbani, al vorticare di elicotteri impazziti e alle linee oblique dei terrapieni dei cavalcavia. Ogni cosa connessa da tagli e innesti che rivelano tutto un futuro, perché come ha detto lo stesso Ballard, “se La mostra delle atrocità fu uno spettacolo di fuochi d’artificio in un ossario, Crash fu l’incursione di mille bombardieri sulla città”. Dirompente.

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