venerdì 12 novembre 2021

Colin Wilson

Nel 1956, Colin Wilson tirò un sasso contro lo specchio per celebrare l’essenza dell’outsider, “un uomo per il quale il mondo, per come lo vede la maggior parte delle persone, è una menzogna e un inganno”. The Outsider esplorava le connessioni tra “un senso di alienazione dalla società” e “una questione di disciplina individuale” che nell’articolarsi di sensibilità e ossessioni, sperimentazioni e osservazioni, nutre e sospinge  “un sentimento violento di pura affermazione”. L’identità dell’outsider, con l’istintiva necessità di manifestarsi a un livello più ampio e verso orizzonti inesplorati, lo posiziona verso “maggiori possibilità spirituali” ed è qui, in estrema e provvisoria sintesi, che si intravede la natura della simbiosi tra Religione e ribellione. Un anno dopo, il sasso lanciato con The Outsider Colin Wilson mostra il reticolo delle spaccature e delle crepe di quel riflesso in frantumi: il disprezzo per la futilità della vita, il rifiuto della limitata gamma di opzioni proposte e/o imposte dalla civiltà moderna, quel rumore di fondo che “non concede tempo per la pace e la contemplazione”, costituiscono il carburante spontaneo della ribellione. La religione, che deve necessariamente comporsi di “mito, dogma, rituale” è relativa ed è intesa in un senso molto più ampio dell’articolazione dell’espressione della fede in forme istituzionali o spontanee. Per Wilson e per la disposizione in sé dell’outsider  sono più importanti la poesia (“Ogni poeta sa che il valore reale di un uomo è determinato dalla profondità della sua esperienza emotiva. Sono quelle intuizioni profonde del suo stesso essere che danno veramente all’uomo il dominio su se stesso e su tutto il mondo”, la filosofia (“Il segno della grandezza è sempre l’intuizione, non la logica, ma la nostra civiltà purtroppo ha fatto una distinzione immaginaria tra le due cose, che si chiama filosofia”) e la letteratura. Con queste premesse, Colin Wilson si addentra in altrettanti ritratti, bio-bibliografici e critici, di Böhme, Pascal, Wittgenstein, Kierkegaard, Swedenborg, Whitehead, Ferrar, Newman, Law e, forse più di tutti, Bernard Shaw. Sono loro gli outsider per eccellenza, ma nel suo estendersi, Religione e ribellione ospita l’inferno e il paradiso secondo Rilke, Rimbaud e Verlaine, Joyce e Beckett, Elliot e Blake, Fitzgerald e Hemingway e infine Dostoevskij a ricordare che “tutte le creature viventi vivono principalmente per istinto e l’uomo non fa eccezione. Ma quando una civiltà raggiunge la sua fase di declino, l’istinto di salvezza non è sufficiente: l’intuizione ha bisogno della punta di diamante di uno sforzo intellettuale conscio”. Nella ricchezza della sua esposizione, più che sostenere e illustrare la tesi e le cause dell’outsider, Colin Wilson si abbandona a raccontarne le gesta, le idee, le illusioni e le visioni, in fondo seguendo una sola convinzione, dichiarata in modo molto chiaro ed esplicito fin dall’inizio: “Credo che gli esseri umani sperimentino una gamma di stati mentali ristretta quanto i tre tasti centrali di un pianoforte, mentre sono convinto che la gamma di possibili stati mentali sia ampia quanto l’intera tastiera, e l’unico scopo e compito dell’uomo sia di estendere la propria percezione dalle solite tre o quattro note all’intera tastiera”. Una metafora perfetta che da sola riassume tutta l’erudita esperienza di Religione e ribellione.

Nessun commento:

Posta un commento