Uno
dei più importanti architetti francesi, Jean Nouvel, sostiene che
“un edificio deve saper comunicare le inquietudini di un’epoca”.
Una definizione che collima alla perfezione con L’occupazione
del suolo: il
ritratto di Sylvie Fabre, un enorme murale pubblicitario esposto al
vento, alla pioggia, agli elementi naturali (e non) è quasi un’opera
di landscape art che deve assorbire quell’aria, quel clima,
quell’atmosfera, in cui “per negligenza o per volontà, si
lasciava deperire lo spazio”. E’ tutto quello che rimane di lei
al padre e al figlio Paul e quando la costruzione di un
nuovo palazzo va a coprire il dipinto, i tentativi di restargli
vicino, di vederla ancora, determinano anche la consapevolezza di ciò
che non si vedrà più perché come diceva un altro grande
architetto, Bernard
Tschumi, “un oggetto di architettura non è architettonico perché
seduce o perché adempie a qualche punizione pratica, ma perché
mette in moto l’inconscio e le operazioni di seduzione”.
L’occupazione
del suolo
in sé non è meno attraente dell’immagine dipinta sul muro, ma è
il contesto di Parigi e della sua evoluzione a determinare i
movimenti principali, le scosse che arrivano a mostrare nuovi profili
e nello stesso tempo a oscurarne altrettanti. Il segreto, neppure
tanto invisibile nel minuscolo capolavoro di Jean Echenoz, sta
proprio nel trascrivere le emozioni dello sguardo per quelle
variazioni architettoniche. La sensazione sembra quella
descritta negli stessi anni da Jean Vautrin: “Ecco cosa ho visto,
ma nessuno è obbligato a crederci”. E’ un punto ben preciso
sulla mappa. L’occupazione del suolo, è delimitata da quai
de Valmy che corre lungo il canale Saint-Martin, il santo dei
traslochi, e lì, sul suo fondo “si
trovavano troppo poche armi del delitto, gli unici scheletri erano
armature di sedie di ferro, carcasse di ciclomotori. Per il resto,
solo cerchioni e pneumatici scompagnati, marmitte, manubri; la
proporzione di bottiglie vuote sembrava normale, in compenso la
quantità di carrelli di ipermercati rivali era sconcertante”.
La vocazione del cantiere è innata perché la via, in origine, quai
de Louis XVIII, si sviluppa proprio per la costruzione del canale, a
cui è legata in modo indissolubile. In quegli anni Parigi è tutta
un cantiere verso il futuro, un’onda lunga partita dal Beaubourg e
culminata nella costruzione dell’Institut du Monde Arabe, della
Villette e della Cité des Sciences et dell’Industrie, ma come
scriveva Edmond Jabès, contemporaneo a Jean Echenoz, “la tua città
è un miraggio. La terra, rispetto all'universo, un uccello perduto,
dalle ali troppo fragili per sfidare, sola, l’ignoto. Cammina su
questo pianeta così maneggevole che un niente lo fa girare. Dove
sei? Caduto nella trappola del reale e dell’inverosimile. Cercando
l’uscita”. Padre e figlio restano impigliati proprio lì: quando
di Sylvie Fabre rimane soltanto la pubblicità di un profumo, non
sfugge il simbolismo, anche se Jean Echenoz la tratta con gentilezza.
L’icona prende vita non per le necessità del commercio, ma per la
nostalgia, per il vuoto che ha lasciato e che ha fatto implodere i
legami famigliari. Il pellegrinaggio davanti alle inarrivabili
dimensioni di Sylvie Fabre è il tema costante di un racconto che ha
il ritmo della ballata di uno chansonnier, ma con un sottofondo
minimalista di rumori e distorsioni impercettibili, che disturba quel
tanto che è giusto. La declinazione dei tempi è enigmatica e l’uso
del condizionale un’incongruenza perfetta nello stile perché rende
benissimo l’idea di un tempo transitorio, dove L’occupazione
del suolo genera distorsioni significative nella percezione dei
luoghi perché “basta un oggetto per avviare una catena, se ne
trova sempre uno che sigilla ciò che lo precede, colora ciò che
seguirà, così, al normografo, l’avviso del permesso di
costruzione. Poi è tutto molto rapido, qualcuno probabilmente si è
venduto l’anima assieme allo spazio, c’è il buco”. Sì,
L’occupazione del suolo è la dimostrazione che in poche
parole (una trentina di splendide pagine) si può dire tutto.
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