E’
giovanissimo, Omar Cabezas, quando aderisce alla causa sandinista e
ha poco più di vent’anni quando raggiunge la guerriglia sulle
montagne del Nicaragua. Un passaggio irto di ostacoli e difficoltà
per uno studente universitario, che si rende necessario perché la
montagna insegna, allena, addestra. Il suo è un diario tenuto con un
linguaggio “fresco, divertente, diretto e irriverente”, come ha
scritto Carlos Fuentes, e comunque magnetico, come d’altra parte
l’ha definito Julio Cortázar. Due presentazioni di prestigio che
rendono bene il senso ultimo e più profondo di Fuoco dalla
montagna. La questione ideologica, la rivoluzione sandinista in
sé, resta sullo sfondo anche se il movente è sempre chiaro e
ineluttabile. L’attenzione di Omar Cabezas porta in primo piano
quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo di formazione. La
resistenza collettiva e la maturazione personale cominciano proprio
dagli stenti quotidiani, dalla condivisione del dolore, della fatica,
della noia, del freddo e della solitudine. La montagna è impervia, è
un rifugio, ma è anche una trappola e l’azione è sempre
sottolineata dalle difficoltà, dagli sforzi estremi per supplire
alle necessità minime e indispensabili di ogni giorno. Mangiano
carne di scimmia, ma più spesso il menù è limitato a un po’ di
latte in polvere. Sopportano le sveglie all’alba, gli esercizi nel
fango, le lunghe marce, le malattie, la cupa tristezza per la perdita
di un compagno, gli allarmi, le emergenze e le ritirate. Più di
tutto la presenza incombente ed esigente della montagna. Lassù “la
pelle si fece dura, lo sguardo si fece duro, il palato si fece duro.
La vista si fece più acuta, l’olfatto iniziò a perfezionarsi, i
riflessi sempre migliori: ci muovevamo come animali. I nostri
ragionamenti si fecero sempre più duri, man mano che l’udito si
acuiva. Era come se ci rivestissimo della stessa durezza del bosco,
della durezza degli animali”. La metamorfosi porta Omar Cabezas a
scoprire che “il fuoco, su in montagna, è un’arte” e le sue
descrizioni ricordano da vicino Preparare un fuoco, il
classico di Jack London: “Man mano che prende il fuoco, la fiamma
emerge là dove c’era solo bagnato, il fuoco nasce là dove c’era
solo umidità, e prende forza, si avvicina ai rami più grandi,
accende i rametti poi quelli più grandi e quelli più grandi ancora,
finché non si accende del tutto. Quasi non ci si crede che possa
prendere un fuoco là in mezzo. Ti asciughi, ti scaldi: che possa
apparire del fuoco in mezzo a tanta umidità, in mezzo a tanta
pioggia, nel bel mezzo di una selva così umida, è una cosa
inimmaginabile”. Non di meno, il ritorno a valle, in città, dove
lo chiama la sua missione, è altrettanto pieno di stupore. Qualcosa
è rimasto incastrato nella montagna, il tempo è schizzato verso il
futuro, Omar Cabezas lo intuisce quando si ritrova a casa: “Mi
sembrava che quell’anno di assenza fosse durato un secondo appena.
Non sapevo se l’avevo vissuto davvero, se ero stato davvero su in
montagna. Di sicuro erano passati molti giorni, uno dopo l’altro,
prima di arrivare lì, ma non ero sicuro di essermene andato davvero.
Ero su una macchina clandestina, con due compagni armati e quando
passammo di fronte alla casa e la vidi, accidenti! Fu un colpo
incredibile, mi pareva tutto irreale. Ogni tanto ci convinciamo che
il mondo evolve con noi; ci convinciamo che sia il mondo a farci
evolvere; a volte abbiamo l’impressione che, se non ci sei tu,
rimane tutto immobile”. Una bella testimonianza.
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