C’è
una scena, all’inizio, un po’ surreale: una mongolfiera in
difficoltà, un gruppo di uomini coinvolti all’improvviso dalla
casualità e nello stesso destino, lo sfondo bucolico della campagna
inglese. Sembra “l’avanzo di un ricordo”: la mongolfiera è
simbolo di una certa leggerezza e un dei protagonisti si accorge che
“come il personaggio di un sogno vivevo al tempo stesso in prima e
in terza persona. Agivo, e mi vedevo agire. Avevo dei pensieri, e li
vedevo su di uno schermo. E come in un sogno, le mie reazioni emotive
erano inesistenti o inadeguate”. Nel movimento corale una domanda
rimane sospesa nell’aria, proprio come la mongolfiera: “Verso che
cosa stavamo correndo? Credo che nessuno di noi lo saprà mai fino in
fondo”. Nell’incipit, Ian McEwan sfoggia uno dei suoi migliori
esercizi di stile e costruisce il momento con precisione geometrica,
rivisitandolo da più angolazioni e senza trascurare il minimo
dettaglio, sapendo che “viviamo avvolti dentro una nebbia
percettiva in parte condivisa, ma inaffidabile, e i nostri dati
sensoriali ci arrivano distorti dal prisma di desideri e convinzioni
che alterano persino i ricordi”. E’ in uno di quei particolari
che, affiorando nitidi, scatenano il motivo di fondo che anima
L’amore fatale: Joe Rose si ritrova ad essere l’oggetto
del desiderio di Jed Parry, un allucinato di primissima categoria, la
cui mente è offuscata una patologia erotica che associa religione e
amore. Ne segue una vera e propria persecuzione che mette in dubbio
la vita stessa di Joe Rose (giornalista scientifico con non poche
contraddizioni nascoste) e della compagna, Clarissa, fino al convulso
finale, non privo di colpi scena (appendici comprese). Qualcuno ha
voluto vedere in L’amore fatale una testimonianza delle
nevrosi spirituali moderne, a partire dalla new age, ma niente di
tutto ciò ha una ragione d’essere perché l’acqua in cui
galleggia Ian McEwan è quella delle nostre ossessioni quotidiane,
delle paure e delle idiosincrasie di tutti i giorni, che in sintesi
sono riassunte così: “L’oggettività spietata, specie riguardo a
noi stessi, è sempre stata una strategia sociale funesta.
Discendiamo da una stirpe di spacciatori di mezze verità i quali per
convincere gli altri, escogitarono l’espediente di persuadere se
stessi. Nel corso delle generazioni, il successo ci ha selezionato
lasciandoci inciso nei geni, però, il solco profondo del nostro
peggiore difetto: se qualcosa non risponde ai nostri difetti siamo
portati a negarne l’esistenza. Credere coincide col vedere”. Ian
McEwan legge L’amore fatale, più che scriverlo, lo dipana
con grande maestria, come se il romanzo fosse già esistito in
origine, non frutto di un’elaborazione. L’unico calcolo di Ian
McEwan riguarda la prospettiva, il punto di vista, come se il lettore
dovesse vedere più che leggere, di conseguenza è consentita una
partecipazione a distanza, anche se Ian McEwan non trascura nulla e
non lascia niente al caso. Per certi versi, L’amore fatale è
opposto e strettamente complementare a L’informazione di
Martin Amis: entrambi colgono, da prospettive differenti, alcune
delle inquietudini più significative dei nostri tempi, con uno stile
letterario destinato ad assumersi, come scriverebbe John Keats,
un’ombra di grandezza. L’autore dell’Hyperion non è
estraneo a L’amore fatale perché oltre ad essere al centro
degli studi di Clarissa (professione: docente universitario) viene
regolarmente citato nei tratti salienti del romanzo, come se fosse
una chiave di volta per l’interpretazione delle intuizioni di Ian
McEwan. Un verso dell’Hyperion stesso sembra dare
un’indicazione molto interessante in merito: “Il poeta e il
sognatore sono distinti, diversi, meri opposti, antipodi. L’uno
riversa un balsamo sul mondo, l’altro lo inquieta”. A Ian McEwan,
quale che sia la categoria di appartenenza, per inquietare il mondo
basta osservarlo e descriverlo minuziosamente, con precisione
matematica, con uno stile che ha pochi eguali tra i suoi
contemporanei e con quelle intuizioni pazzesche che rendono grande e
unico un libro come L’amore fatale.
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