lunedì 28 maggio 2018

Jonathan Coe

Si parte con un gruppo di studenti di Birmingham, nell’Inghilterra della prima metà degli anni Settanta. Scuola, musica, amore, amicizia, per loro. Conflitti sindacali, tradimenti, fughe e crisi esistenziali, per i genitori. Il clima è plumbeo, l’aria è pesante e l’impero in caduta libera. L’unica certezza, dovesse servire è che “i brocchi non ce la fanno. Sono di razza inferiore”. Una miscela esplosiva che Jonathan Coe racconta tracciando il panorama inequivocabile di una nazione decadente ed ingrigita e, nello stesso tempo, dell'impotenza di comprenderne l’evoluzione: “Era il mondo, il mondo in quanto tale, che era fuori dalla sua portata, tutta quella costruzione assurdamente grande, complicata, casuale, incommensurabile, quella marea incessante di relazioni umane, politiche, culture, storie”. Infatti sono proprio i piccoli dettagli dei legami personali che formano l’ordito principale che delinea La banda dei brocchi e su cui s’intrecciano anche cronaca e storia, dagli attentati dell’IRA (e qui non è difficile intuire un parallelo con il bellissimo Eureka Street di Robert McLiam Wilson) all’evoluzione delle vite di Trotter, Harding, Anderton e Chase. Attirati, come è sano e giusto che sia, dalle passioni musicali, in cui vedono uno dei rari momenti in cui sentirsi “meravigliosamente e inaspettatamente a posto”, perché “i piccoli problemi, come il fatto che eri senza soldi e non sapevi dove andare a dormire scomparivano in quel mare di accordi e sudore e birra e distorsioni e corpi che saltavano e si lanciavano frenetici per aria e poi per terra come pazzi senza quasi seguire il ritmo della musica”. Dettaglio, quest’ultimo, di importanza centrale per La banda dei brocchi: non soltanto perché c’è uno strato sottile, ma continuo e inesorabile di richiami musicali che, una volta di più, spiega quanto sia penetrato in profondità il linguaggio pop nella quotidianità delle nostre esistenze. La propensione alla musica è continua ed eccentrica, dove tutto è grigio e monotono, ed è una delle rare certezze che La banda dei brocchi vive nell’autunno del Regno Unito del 1973 e/o 1974. Solo che la stagione conflittuale e stridente di un’intera nazione si riflette anche sulla musica. La banda dei brocchi ripercorre un’epoca che dall’età d’oro del progressive quasi naturalmente, per reazione (o per rivoluzione), sfocia nel terremoto del 1977 e dintorni. Dai Jethro Tull agli Henry Cow (gruppo citatissimo), dalle derive fantasy degli Yes (basta ricordare le coloratissime copertine di Roger Dean) ai Genesis si passa al duro realismo dei Clash. Forse, anche due modi diversi di vedere e vivere la propria condizione: da una parte l’evasione, i voli pindarici, l’estetismo dei suoni e della tecnica; dall’altra, il rifiuto iconoclasta, spregiudicato, senza regole e incontrollabile. La banda dei brocchi è proprio lì in mezzo: “Era la fine del 1976, ricordate? Perfino in una terra di nessuno culturale com’era Birmingham si stava spargendo la voce di un nuovo genere di musica che si cominciava a sentire in posti come Londra e Manchester. Si bisbigliavano i nomi di gruppi come i Damned o i Clash e, naturalmente, i Sex Pistols. Era la gloriosa rinascita del singolo da due minuti. Basta assoli di chitarra. I concept albums erano finiti. I Mellotron? Verboten. Erano gli albori del punk o, nell’azzeccata definizione di Tony Parsons, del rock da sussidio di disoccupazione”. Le conseguenze saranno immediate, come acconta un membro della La banda dei brocchi: “C’erano certi gruppi di cui un anno prima discuteva animatamente con i suoi amici, e oggi anche solo i loro nomi avrebbero provocato veri ululati di scherno se faceva tanto di menzionarli”. Succede spesso anche a noi.

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