lunedì 7 maggio 2018

Maajid Nawaz

Giovane ribelle e writer che cresce nelle strade di Southend, nell’Essex, ascoltando rap, poi affiliato a un’organizzazione islamista, imprigionato in Egitto e infine paladino dei diritti civili, l’ordalia di Maajid Nawaz incorpora molte contraddizioni e si dipana attraverso tre fasi ben distinte eppure congruenti, che si alimentano l’una con l’altra. Lo sradicamento è la componente del primo passaggio, un percorso difficile che Maajid Nawaz deve vivere in una Gran Bretagna che, come la descriveva Salman Rushdie in Patrie immaginarie, “è oggi costituita da due mondi totalmente differenti e quello in cui abiti dipende dal colore della tua pelle”. Dalle offese verbali agli scontri fisici fino all’indifferenza delle istituzioni, l’adolescenza di Maajid Nawaz è una lotta quotidiana sullo sfondo di un incubo ballardiano: “Se non hai provato la paura e l’impotenza che ti fa provare il razzismo violento e organizzato, è difficile capire. Tutto il tuo corpo, per via del colore della pelle, è un bersaglio mobile. E non puoi uscire dalla tua pelle, o far finta che non esista”. Non sorprende che Maajid Nawaz giunga alle stesse conclusioni di Ta-Nehisi Coates (sull’altra sponda dell’Atlantico). Come lui ascoltava Fuck Tha Police dei N.W.A. e spiegava che “la nostra stessa terminologia, relazioni di razza, divario tra razze, giustizia razziale, profili razziali, privilegio bianco, persino supremazia bianca, serve a offuscare il fatto che il razzismo è un’esperienza viscerale, che stacca pezzi di cervello, blocca vie respiratorie, strappa muscoli, estrae organi, spacca ossa, rompe denti. Non devi mai distogliere lo sguardo. Devi ricordare sempre che la sociologia, la storia, l’economia, i grafici, le carte, l’analisi delle regressioni, tutto questo atterra, con grande violenza, sul corpo”. La risposta a questa brutale negazione dell’essenza della vita è la radicalizzazione che Maajid Nawaz insiste nell’identificare come conseguenza diretta e inevitabile dello sradicamento e del razzismo. Anche per quello che è “un problema di rispetto” (e in fondo è tutto lì), Maajid Nawaz aderisce a un gruppo che come obiettivo ultimo ha il ritorno al califfato e ne diventa uno dei principali promotori: in questi frangenti Radical affronta con dovizia di particolari e con una ricchezza di aneddoti la ricchezza e la complessità di un mondo (quello islamico) per  molti ancora indecifrabile. Reso miope dall’entusiasmo, se non proprio dal fanatismo, Maajid Nawaz cerca di tessere una serie di rapporti, ma dall’11 settembre 2001, lo stato di guerra ha ridotto in modo sensibile l’idea stessa dei diritti civili. Quando si trasferisce ad Alessandria (con moglie e figlio) viene arrestato perché se l’organizzazione fondamentalista di cui fa parte è ancora legale in Gran Bretagna, in Egitto è bandita, anche perché ritenuta responsabile dell’assassinio di Sadat. Incarcerato senza alcuna procedura formale, durante la detenzione in Egitto, che sembra uno spezzone tratto da Il libro del buio di Tahar Ben Jelloun, Maajid Nawaz scopre che “è molto più semplice essere crudeli ed egoisti se si è immersi in un’illusione di arroganza e superiorità, che sia religiosa e politica”. Lo vivrà anche nei risvolti autobiografici (la separazione dalla moglie, i contrasti con la madre), una volta liberato e tornato a Londra, per arrivare a capire, tra le conclusioni, che “ci è voluto del tempo per risolvere molti dei pressanti interrogativi posti dalle questioni identitarie in un mondo globalizzato come il nostro. All’inizio, ritirarsi nell’identità di gruppo può essere uno strumento per combattere la discriminazione legale e istituzionale. Però, al di là delle leggi, arriva un momento in cui le divisioni di classe, economiche e culturali, possono essere superate solo puntando sulla reciproca integrazione e sulla partecipazione di tutti nella società”. È l’ultima parte, quella tesa a rivendicare una ragionevole forma di convivenza, dai contorni più umani, e non stupisce che sia la più difficile: quello che insegna Radical, una volta di più, è che la democrazia resta un’imperfezione tanto meravigliosa  quanto fragile.

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