martedì 2 marzo 2021

Pauline Klein

A ben guardare i film di Luc Besson riguardano l’identità che viene sdoppiata, negata, tradita. Certo, il tono è roboante, ironico e scoppiettante, ma dato che Pauline Klein è una scrittrice  molto attenta a filtrare le parole giuste, il richiamo non deve essere stato casuale. La sua forma di autodifesa è la creazione di un alias, visto che per La figurante si inventa “un personaggio padrone di ogni diritto sulla propria vita” e, di conseguenza, di “una parvenza di storia che non si avvicinasse tanto alla realtà”. Così facendo Camille Tazieff, protagonista e alter ego, si convince che “le cose sarebbero accadute lungo un tracciato di parole e di storie. Attraversare la vita senza dovervi davvero partecipare era possibile a patto di inventarsene una altrove”, tenendosi aperte tutte le possibilità e coltivando “un vertiginoso senso di libertà”. La maschera che indossa non è solo “un espediente che consiste nel tinteggiare la realtà per farne una storia”: Camille si barrica dietro una personalità double face e con quella si difende da una madre indolente, lascia Parigi per New York, dove sperimenta il lavoro in una galleria d’arte e la crisi dei mutui subprime e il sesso virtuale, un’estensione meccanica e infinita della solitudine. Tra personaggio e ruolo, la pornografia, che è il regno della doppiezza e dell’ambiguità, diventa un cardine simbolico, estremo ma appropriato, che per La figurante è una svolta, finché Camille e/o Pauline dicono all’unisono: “Ho inventato un personaggio estraneo a quante e quanti riescono a pensare il femminile e ciò che uomini e donne debbano o meno costruire insieme. Ho scelto, se posso dire, di non soffermarmi su quella parte dell’esistenza. Seguivo una determinata danza, un certo movimento. Mi osservavo in uno sguardo, guardavo gli altri acconsentire o indignarsi, giudicare quel che avevano da giudicare. Facevo del mio meglio. Del mio meglio per ottenere un’esistenza che non facesse troppo rumore. Per ottenere un mondo che non mi fosse d’intralcio. Scelsi di rendermi discreta, come si dice. Non si trattava di affrontare chissà che battaglia, solo una specie di lotta interna, una forma di resistenza a quanto veniva proposto. Passiva e solitaria. Un impegno preso nel torpore dell’intimità”. Il processo diventa enigmatico perché tra Pauline Klein, Camille Tazieff, e i rispettivi riflessi, l’educazione sentimentale tra Parigi e New York, andata e ritorno, e “la successione delle cose”, è come entrare in una stanza di specchi. La figurante è l’immagine e la proiezione delle donne che si susseguono, donne lasciate sole dentro città sfavillanti e troppo veloci, a partire dalla madre fino alla futura suocera, attraverso figure irraggiungibili (Eva Senguin, Diane Abbott), mentre gli uomini sono in dissolvenza, quasi trasparenti sullo sfondo, comunque sfuggenti (per non dire inutili), dato che nell’insieme “nessuna vita valeva più di un’altra, a cambiare erano solo le formulazioni”. La dichiarazione d’indipendenza conclusiva di Camille arriva a stretto giro di posta, come un’epigrafe a futura memoria: “La possibilità di formarsi, posarsi, trovarsi, inserirsi, io l’ho lasciata agli altri. Che s’inserissero insomma, tutti, io non ho mai potuto smettere di lasciarmi cullare dall’ambiguità del mondo”. Ma anche l’interprete ha diritto di replica e mentre cala il sipario una voce ci avverte che “a poco a poco andiamo alla deriva verso quel tipo di luogo comune. Le idee si ripiegano su se stesse, frammenti di vita e ricordi si accumulano, ci si ritrova tutti sulla stessa barca, vecchi e vecchie, a dirsi tutti le stesse cose. Al termine della vita continueremo a ritrovarci seduti sulle panchine a formulare frasi fatte alle quali poter aggrapparci”. L’inquietudine di Camille è la stessa di Pauline Klein: quella di muoversi su un piano parallelo e sfalsato rispetto alla realtà che da un lato è un baluardo dalle finzioni, dall’altro le utilizza proprio come protezioni, seguendo l’invito di Kafka che, tra gli Gli aforismi di Zürau, ammoniva: “Nella lotta tra te e il mondo asseconda il mondo”. A volte si riesce, a volte no: La figurante racconta la metamorfosi più difficile, quella di rivelarci a noi stessi.

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