domenica 22 ottobre 2017

George Perec

Per un grande narratore come George Perec anche un libro fatto essenzialmente di appunti, idee, piccoli progetti, diventa un’occasione importante per riflettere, per lasciare un graffio, per indicare una direzione. Il canovaccio è offerto dalla contemplazione, non ovvia, non banale, della città e dei luoghi che occupiamo dove “lo spazio sembra essere, o più addomesticato, o più inoffensivo del tempo: s’incontrano dappertutto persone con un orologio, e solo molto di rado persone con una bussola. Si ha sempre bisogno di conoscere l'ora (e chi sa ancora dedurla dalla posizione del sole?) ma non ci si chiede mai dove si trovi. Si crede di saperlo: si è in casa, si è in ufficio, si è nel metro, si è in strada. E’ evidente, certo, ma è così evidente? Eppure, di tanto in tanto, bisognerebbe chiedersi dove si sia (arrivati): fare il punto: non solo sui propri stati d'animo, la propria salute, le proprie ambizioni, credenze e ragioni d'essere, ma semplicemente sulla propria posizione topografica, e non tanto rispetto agli assi sopraccitati, ma piuttosto rispetto a un luogo o a un essere al quale si pensa, o al quale ci si metterà così a pensare”. Una sorta di estrapolazione dei significati della/dalla quotidianità, quasi un tentativo di fotografarne lo scorrere senza soluzione di continuità: “I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato”. La vena sottile, ironica, e leggera come Italo Calvino ha insegnato, non impedisce a George Perec di affrontare in modo limpido, diretto tutte le problematiche relative a ogni luogo in cui viviamo, dalle camere delle nostre abitazioni alla città (“Mai potremo spiegare o giustificare la città. La città è qui. E’ il nostro spazio e non ne possediamo altro. Siamo nati in città. Siamo cresciuti in città. E’ in città che respiriamo. Quando prendiamo il treno, è per andare da una città all'altra. Non c'è niente di inumano in una città tranne la nostra umanità”), dalla strada alle trincee (“Si è combattuto per minuscoli frammenti di spazio, per pezzi di collina, qualche metro di lungomare, qualche picco roccioso, l'angolo di una strada. Per milioni di uomini, la morte è arrivata per una minima differenza di livello tra due punti che a volte distavano meno di cento metri: si combatteva per intere settimane per prendere o riprendere quota 532”) fino allo spazio per eccellenza, la pagina, la pagina bianca, la carta dell’oceano di Lewis Carroll senza una virgola. Puro nulla e, non a caso, è proprio qui che il libro di George Perec comincia, perché “Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”. E’ anche la conclusione della cartografia di Specie di spazi, stramba ed eccentrica finché si vuole, ma efficace.

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