Mamma
e papà davanti alla televisione riconoscono, in un programma di
cronaca, il figlio come protagonista di un’aggressione a un
clochard, brutale e tragica nella sua conclusione. Il papà non dice
nulla: la violenza è un parte della sua malattia. La mamma non dice
nulla, e basta. Il filmato è di bassissima qualità, il figlio e i
complici sono vestiti come migliaia di ragazzi, nessuno li riconosce.
Ma tra gli altri c’è un nipote, figlio di un politico
professionista e candidato a primo ministro che, avendo scoperto il
fatto, non vuole saperne di proseguire la sua carriera con una mina
pronta a esplodere da un momento con l’altro. La “cena”
convocata per l’occasione in un ristorante di lusso diventa un
consiglio di guerra famigliare per decidere cosa e come fare.
Nell’atmosfera misurata e controllata del raffinato convivio,
cresce una livida ambiguità trasformando La cena in un
clamoroso punto di domanda: l’imprevedibile che può pregiudicare
il destino e travolgere carriere, abitudini, posizioni nasce proprio
nell’alveo della famiglia e ancora prima di immaginare una via
d’uscita, i commensali si chiedono come è stato possibile, cosa
hanno già perso, più di ciò che potrebbero perdere. Il romanzo è
solido e trascinante, anche se la scrittura è abbastanza diseguale.
In alcuni passaggi è molto lirica, altrove riflette il passato di
autore televisivo di Herman Koch, tradendo un insolito affetto per le
immagini e per il loro dettaglio. Colpiscono i passaggi in cui il
lettore viene proiettato sul tavolo, dentro il menù, nel fuoco amico
della discussione e poi fuori, come se fosse uno spettatore degli
eventi. “Potevo scegliere fra due alternative: rimanere a guardare
dalla finestra o confondermi nella folla. Avrei potuto fare finta di
avere una destinazione anch’io”: la considerazione di uno dei
protagonisti della “cena” vale anche per il lettore. Una serie di
cambi di prospettiva che permette al romanzo di mantenere la tensione
di un thriller dall’inizio alla fine. Solo che qui non c’è alcun
mistero sui colpevoli (sono noti fin dall’inizio i responsabili
dell’omicidio), sui moventi o sulle motivazioni, peraltro piuttosto
evanescenti. C’è una grande pressione, a tratti palpabile nei
momenti più feroci della “cena”, in attesa di risposte che, in
effetti, non arrivano. O meglio, diventano chiare una volta imboccata
la ripida discesa del finale, a suo modo è una rivelazione, che
lascia aperte al lettore tutte le possibilità narrative. Mettendolo
in un vicolo cieco dal punto di vista morale: cosa è giusto, cosa è
sbagliato, in questa inquietudine moderna, viene deciso a tavola,
dove quattro persone sono costrette a confrontarsi con una drammatica
scelta (come difendere i figli senza tradire i propri valori) e a
discuterne tra una portata e l’altra con la soluzione (se si può
parlare di soluzione) che arriva insieme a un enorme conto da pagare.
La violenza, endemica e mimetizzata all’interno della stessa
cerchia famigliare, si rivela, ancora una volta, e fino in fondo,
un’opportunità perché “da qualche parte sarebbe rimasta una
cicatrice, ma una cicatrice non impedisce di essere felici”. Fa
pensare.
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