C’è
“un giudice a Berlino” che apre pagine dolorose, e trova
giustizia nella scrittura, come se la narrazione, il tentativo di
interpretare una storia, la storia, fosse la condanna definitiva.
Legge e giustizia nello schema mortale di una dittatura (il Cile nel
1973, ma vale sempre) sono sinonimo di pericolo e tortura e un
giudice nella sua posizione risulta essere soltanto ambiguo. Laura è
un giudice che durante il colpo di stato cileno del 1973 si trova a
fronteggiare le nuove imposizioni della legge voluta dall’esercito.
Deve applicare la legge, la deve rispettare, anche se è palese che
gli viene imposta e che non è per nulla condivisa e che, ancora
meno, dipende dalla giustizia. Lo “stato di guerra interna”, come
l’hanno chiamato i generali, giustifica la sospensione del diritto
e della sua interpretazione e Laura, questo il nome del giovane
giudice, che si trova sull’orlo del baratro, capisce che “lo
stato totalitario non è quello dove non c’è legge, ma quello dove
non c’è altro che legge e nessun perché”. Il dilemma tra
l’amministrazione della giustizia dello stato e la verità diventa
un abisso in cui precipita fino a pagarne le estreme conseguenze:
“Stiamo diventando poco alla volta un paese fantasma, presagendolo
e ormai anelandolo. Quando arriverà il nostro turno per la
rottamazione, si tratterà di una semplice ridondanza: un silenzio
identico a quello delle nostre voci solitarie che predicano nel
deserto”. Lei stessa si ritroverà a non sapere domandare niente al
suo aguzzino e a dover rispondere alla figlia, anni e anni dopo,
perché “i figli ci fanno il favore di rieducarci al dubbio e al
dissenso”. La figlia, Claudia, chiede alla madre perché la legge
non è stata giustizia, perché la giustizia non ha servito la
verità, perché la verità è rimasta sepolta nel deserto, bruciata
dal sole e corrosa dal sale. La madre risponde scavando nella
memoria, lottando con ricordi che non vorrebbe più rileggere
(figurarsi scrivere) e cercando di assemblare frammenti di una storia
che l’ha vista vittima, carnefice, complice. C’è qualcosa nel
fiume di parole tra madre e figlia di indicibile (di inaspettato) che
appartiene al risvolto più oscuro della trama. Il ritrovarsi, alla
fine, nel deserto per le due donne rappresenta la soluzione del
conflitto a distanza, ma fino allora il racconto è una fisarmonica,
una forma di respiro che alterna ricordi e colloquio epistolare che
insieme fanno “la volontà di sapere quello che non si può sapere,
di spiegare l’inspiegabile. Sapere e spiegare, per esempio, la
normalità che aveva circondato la perversione. Non che la
perversione fosse divenuta normale, ciò sarebbe stata cattiva
memoria o pessima letteratura, bensì spiegare e sapere che le vite
normali avevano seguito il loro corso normale mentre accadeva lo
straordinario”. Tra magie e fantasmi, miraggi e destini, l’assedio
del deserto all’utopia e la resistenza di due donne legate da un
mistero si celebra in quello che Carlos Fuentes ha definito un
romanzo “il destino individuale e quello collettivo: con sguardo
lucido, distaccato eppure appassionato, Carlos Franz osa scrutare nei
melodrammi di queste vite elevandoli a tragedia di una nazione”.
Non si potrebbe dire meglio.
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