Andrew
e Frances Howe si trasferiscono in Arabia Saudita, a Gedda, dove lui
dovrà sovrintendere alla costruzione di un nuovo e sontuoso palazzo
ministeriale. La Turadup, la società inglese che ha in appalto i
lavori, pensa a tutti i dettagli, con la mediazione di Jeff Pollard
e sotto la responsabilità diretta di Eric Parsons, due figure che
avranno un ruolo non relativo durante gli Otto mesi a Ghazzah
Street trascorsi dagli Howe. Provenienti dall’Africa, già
allenati a sopportare condizioni estreme e pericolose, apartheid
compreso, Andrew e Frances affrontano l’impegnativo trasloco
soltanto in virtù di un congruo riconoscimento economico: fuori
dalle mura dell’appartamento affittato dalla Turadup c’è un
mondo ostico, che però paga stipendi come da nessun’altra parte.
Andrew è assorbito e sfiancato dal lavoro, Frances accusa ben presto
un senso di isolamento, acuito dalle condizioni sociali e climatiche.
Il calore opprimente si condensa nel senso di claustrofobia, persino
all’aria aperta, anche di fronte al mare, dovuto all’attrito
costante con le regole e le tradizioni, l’ipocrisia e i segreti
celati dietro le porte chiuse, le voci e la lettura delle lettere ai
giornali, le difficoltà nelle comunicazioni, perché “da quelle
parti la curiosità è un fenomeno transitorio. Non che si venga a
sapere tutto, ma nel giro di poco s’impara a conoscere ciò che è
consentito. E’ un tipo di società riservata che non rende noti i
propri difetti e non svela il modo in cui ragiona, che risponde alle
domande pressanti con un’ondata di disinformazione e poi torna al
suo prediletto silenzio. Una porta si chiude e, mentre stai mettendo
insieme i luoghi comuni di tua conoscenza, se ne chiude un’altra,
sbattendo”. Solo questi gli elementi che trasformano gli Otto
mesi a Ghazzah Street in un’eternità. In effetti, la
dimensione temporale è falsata, non soltanto dal calendario
islamico, per cui “il tempo sembra scorrere a ritroso”. La
giornata a Gedda è lunga, scorre come la polvere, impercettibile,
sfuggente, friabile: l’unica attività concreta è andare a far
compere, ma anche quello comporta limiti e rischi, in particolare se
ci si avventura nel suk. Non a caso, il condominio dove abitano gli
Howe è chiamato “il capolinea”: lì crollano in sonni agitati,
bevono vino fermentato di nascosto e cercano di seguire le
consuetudini degli espatriati, che sono quasi una società segreta.
Il rischio di essere espulsi o (peggio ancora) di essere trattenuti è
costante così come è continua l’ostilità verso le donne,
costrette ad assecondare le imposizioni locali, a limitarsi, se non
proprio a nascondersi. L’alternativa a Ghazzah Street, al
“capolinea”, sarebbe (il condizionale è obbligatorio) un
compound di maestranze occidentali, ancora più isolato, dato che la
direttiva aziendale firmata da Eric Parsons è inequivocabile: “Il
meglio che ci è concesso di fare, come individui, è tenerci alla
larga dai guai”. Con una scrittura agevole, priva di inflessioni e
complicazioni, Hilary Mantel riesce a rendere alla perfezione il
senso di estraneità di Frances (soprattutto) e Andrew: la vita a
Gedda è un’intricata nebulosa di leggi (scritte, dette e non
dette) e al “capolinea” la trasferta professionale si sublima in
un segmento di tempo alieno finché l’idea dell’esilio non appare
del tutto fuori luogo. Un bel romanzo, utile ed efficace.
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