Il
mondo così com’è oggi raccontato da un osservatore che ha un
rapporto privilegiato con la scrittura e che riesce a mantenersi
lucido e sicuro anche quando si trova nell’occhio di ciclone delle
tempeste della storia. Ad Amitav Ghosh è capitato spesso, non tanto
per vocazione o per andare in caccia di quell’adrenalina che è il
sangue e l’anima di ogni reporter di guerra, quanto piuttosto
perché il conflitto sembra essere averlo inseguito per gran parte
della sua vita. Lasciatosi alle spalle l’India (che qui viene
raccontata in tutte le variazioni delle sue guerre, interne ed
esterne) si è ritrovato a vivere a New York proprio poco prima degli
attacchi apocalittici al World Trade Center e dopo aver conosciuto
tutto un catalogo di orrori e di disperazione in Cambogia, in
Birmania e ancora altrove. Questa simbiosi con il conflitto non gli
ha impedito però di perdere la lucidità e di mantenersi in
equilibrio anche in mezzo alla paura e al disorientamento. E’ uno
dei pochi intellettuali dei nostri tempi ad avere avuto il coraggio
di scrivere: “La religione, la razza, l'etnia e la lingua non hanno
alcun contenuto reale. Servono unicamente come linee di demarcazione.
L'odierno contenuto dell’ideologia, qualunque vesta assuma,
religiosa, linguistica o etnica, è lo stesso in tutti i paesi, anche
se può variare l'articolazione simbolica”. Radunando gli articoli
apparsi nell'arco di più di vent'anni, Circostanze incendiare
diventa qualcosa di più: una complessa e insieme scorrevole analisi
del mondo in cui viviamo e il faticoso arrancare di ogni narratore
per raccontarlo perché, come tra il saggio e l'amaro scrive Amitav
Ghosh, “è quando pensiamo al mondo che l'estetica
dell'indifferenza potrebbe generare, che riconosciamo l'urgenza di
ricordare storie di cui non abbiamo scritto”. Forse è l’esigenza
di aggrapparsi in continuazione alle storie a permettere a Amitav
Ghosh di mantenere la posizione, il punto anche in un frammento di
carta geografica. Comunque, la sua fiducia nella lettura (“I libri
marciscono se nessuno li legge”), nei legami tra luoghi e narrativa
(“E’ questo dunque lo specifico paradosso del romanzo: chi ama i
romanzi spesso li legge per il modo eloquente con cui comunicano il
senso del luogo. Ma la verità è che proprio la perdita di un senso
del luogo ne permette la rappresentazione narrativa”) non gli
impediscono di cogliere fino in fondo i limiti impliciti e il più
delle volte insondabili della letteratura di fronte all’apocalisse
quotidiana: “Noi che scriviamo fiction, anche quando ci riferiamo a
temi di rilevanza pubblica, non abbiamo scelta (e non importa quanto
i nostri romanzi siano sdolcinati o stravaganti) se non quella di
raccontare i fatti filtrati attraverso la nostra personalità. Il
nostro approccio agli eventi, anche i più generali, è
inevitabilmente limitato, basato e focalizzato su dettagli e
particolari. Di qualunque fatto si scriva, si finirà necessariamente
per trascurare il contesto politico”. Misurarsi con un fallimento
indispensabile (“Se c’è qualcosa di istruttivo
nell’attuale disordine del mondo, è senza dubbio questo: che poche
idee sono pericolose quanto la convinzione che ogni mezzo sia
consentito in funzione di un fine auspicabile”) è l’unico modo
per vedere come viviamo oggi anche perché, come scrive lapidario e
acutissimo Amitav Ghosh, “in un mondo di esseri umani anche la
sconfitta è una transazione”. Nell’era del mercato unico e
assoluto dio, la letteratura non sarà la salvezza, ma uno dei modi,
forse l’ultimo, per accorgersi che l’incendio è nato nelle
parole e lì finirà in un’inutile cacofonia, che poi, per chi
scrive e per chi legge, è la vera fine del mondo.
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