Dal 1981 al 1991, nella risibile vicenda dell’umanità “si manifesta una grande varietà di sintomi malsani”, come li chiama Salman Rushdie, parafrasando Gramsci, nell’introduzione di Patrie Immaginarie. Molti di quegli sbalzi riguardano il subcontinente indiano e l’home front nel cuore dell’impero britannico ormai svanito, a cui Salman Rushdie dedica la prima metà dei saggi collezionati da Patrie immaginarie. Tra le considerazioni politiche, che comprendono la censura (e le minacce) per I figli della mezzanotte, l’assassinio di Indira Gandhi e una conversazione con Edward Said sull’identità palestinese, trovano una collocazione anche brevi anticipazioni di riflessioni letterarie e cinematografiche, tra cui una forbita dissertazione su Brazil. Succede perché Salman Rushdie è alla ricerca di un senso e “la storia è sempre ambigua. È difficile stabilire i fatti, e questi possono vedersi caricati di molti significati. La realtà è fondata tanto sui nostri pregiudizi, sulle nostre concezioni errate e sull’ignoranza, quanto sulla percettività e sul sapere”. Nella seconda parte di Patrie immaginarie la tensione verso significati che il tempo degli eventi storici e politici non concede e, anzi, tende a dissimulare, se non proprio a erodere, diventa prevalente e il motivo è tutto nella convinzione di Salman Rushdie che “gli esseri umani non percepiscono le cose per intero; non siamo dèi, bensì creature ferite, lenti frantumate, capaci solo di percezioni fratturate. Esseri parziali, in tutti i sensi della parola. Il significato è un edificio instabile che costruiamo con frammenti, dogmi, ferite infantili, articoli di giornale, osservazioni casuali, vecchi film, piccole vittorie, gente odiata, gente amata; questo forse avviene perché la nostra idea di realtà è costruita su materiali talmente inadeguati che la difendiamo a spada tratta, anche fino alla morte”. Va da sé che la risposta “molto semplice” di Salman Rushdie sta proprio nella letteratura intesa come “un meccanismo che da solo è in grado di provare il proprio valore o la propria falsità. Vale a dire che un libro non si giudica dalle credenziali possedute dal suo autore prima di scriverlo, ma dalle qualità che possiede una volta scritto. Ci sono libri terribili che scaturiscono direttamente dall’esperienza e avvenimenti straordinariamente immaginativi che trattano temi a cui l’autore è stato costretto ad avvicinarsi dall’esterno. Scopo della letteratura non è di imporre un copyright a certi temi. E per quanto concerne i rischi, uno scrittore li corre nello svolgimento del suo lavoro, nello spingere la propria opera ai limiti del possibile, nel tentativo di allargare il campo del pensiero possibile. I libri sono validi quando raggiungono questo limite e rischiano di travalicarlo, quando mettono in pericolo l’artista sulla base di quanto ha, o non ha, osato da un punto di vista artistico”. Tra gli scrittori degni di rappresentare questo punto di vista, ci sono, tra gli altri, Nadine Gordimer e John Berger, Ryszard Kapuściński e Michael Herr, John Le Carré e Bruce Chatwin, Umberto Eco e Italo Calvino, Thomas Pynchon e Kurt Vonnegut, Raymond Carver e Richard Ford, Julian Barnes e Kazuo Ishiguro, Grace Paley e Philip Roth. Una vera e propria miniera di suggestioni. A tutti Salman Rushdie dedica un’attenzione scrupolosa, sia attraverso l’analisi critica sia nella forma dell’intervista, ritagliandosi infine anche un piccolo posto per sé in queste sacrosante Patrie immaginarie, quando conclude dicendo: “Ma voglio che sia chiaro: non mi lamento. Sono uno scrittore. Non accetto la mia condizione e farò tutto di tutto per cambiarla, cionondimeno la vivo e cerco di imparare da quanto è accaduto. La vita ci insegna chi siamo”. Da usare spesso e volentieri.
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