venerdì 2 febbraio 2018

António Lobo Antunes

Un monologo crepuscolare, amaro, senza via d’uscita, con una marea di whiskey per mettere una distanza di sicurezza con incubi che non se ne vogliono andare. Una lenta risacca di alcol, e “John Coltrane che soffia dentro il sassofono la sua dolce amarezza di angelo ubriaco” perché ci vuole ci vuole tempo che non c’è più e “bisogna premunirsi contro questa notte”. In culo al mondo riporta l’intera Angola come se fosse la Guernica del Portogallo nella voce di un veterano che ha visto troppo, fin dall’inizio: “Quando mi imbarcai per l’Angola a bordo di una nave carica di militari per diventare finalmente un uomo, la tribù riconoscente al governo che mi concedeva gratuitamente l’opportunità di una tale metamorfosi comparve compatta sul molo, rassegnandosi in un impeto di fervore patriottico a subire gli spintoni di una folla agitata e anonima, simile a quella del quadro della ghigliottina, venuta fin lì per assistere, impotente, alla sua stessa morte”. Forse è una confessione, senza colpevoli, le vittime ormai dimenticate nel dramma delle atrocità di una guerra coloniale di un impero agonizzante, e António Lobo Antunes la registra da vicino, senza correggerla, vivida e grezza nel suo snocciolare aspro, sanguigno, sommesso ma non arrendevole, convinto che “forse dovremmo portare tutti delle bretelle affinché l’anima non cascasse sui calcagni”. La condizione è estrema, nonostante l’atmosfera di casuale confidenza che si crea tra l’uomo e la donna che lo sta ascoltando, con la benevolenza degli estranei perché, nonostante il ritorno in patria, gli rimane la sensazione di essere rimbalzato in un altro esilio. Inseguito dallo sconforto e dagli spettri che non lo lasciano mai, prova a spiegarsi così: “Appartengo sicuramente a un altro luogo, non so bene quale, d’altronde, ma suppongo che questo luogo sia così lontano nel tempo e nello spazio che non potrò mai recuperarlo”. Mentre la luce beffarda dell’alba si avvicina, In culo al mondo comincia a svolgersi a colpi di frusta (“Cerchi di capirmi: apparteniamo a una paese dove l’abilità fa le veci del talento e l’ingegno fa le veci della forza creatrice, e penso spesso che non siamo altro che dei minorati mentali ingegnosi che riparano i guasti alle valvole dell’anima con rappezzi di fil di ferro”), alternando le ferite sanguinanti dell’Angola a improvvise eruzioni di passione e malinconia (“Ogni volta che si fissa troppo qualcuno, costui comincia ad acquisire a poco a poco non un aspetto familiare, ma un profilo postumo nobilitato dalla nostra fantasia che immagina la sua scomparsa. La simpatia, l’amicizia, perfino una certa tenerezza, diventano più facili, l’indulgenza arriva senza sforzo, l’idiozia acquista la seduzione amabile dell’ingenuità. In fondo, è evidente, è la nostra stessa morte che noi temiamo quando viviamo quella altrui, ed è davanti a essa e per via di essa che noi diventiamo remissivamente vigliacchi”) per arrivare alla conclusione, quando ormai si è fatto giorno che “no, davvero, la felicità, quella condizione che viene fuori dall’impossibile convergenza di parallele fra una digestione senza acidità e l’egoismo soddisfatto e privo di rimorsi, continua a sembrarmi, a me che appartengo alla dolorosa classe di gente inquieta e triste in eterna attesa di un’esplosione o di un miracolo, qualcosa di così astratto e strano come l’innocenza, la giustizia, l’onore, concetti magniloquenti, profondi e in fondo vuoti che la famiglia, la scuola, la catechesi e lo stato mi avevano solennemente rifilato per potermi domare meglio, per neutralizzare, se così posso esprimermi, ab ovo, i miei desideri di protesta e di rivolta. Ciò che gli altri esigono da noi, capisce?, è di non essere messi in causa, di non scuotere le loro vite in miniatura, murate contro la disperazione e la speranza, di non rompere i loro acquari abitati da pesci sordi che fluttuano nell’acqua limacciosa della quotidianità, illuminata dalla lampada sonnolenta di ciò che chiamiamo virtù e che consiste soltanto, vista da vicino, nella tiepida mancanza di ambizioni”. Quando arriva il giorno, lei se ne va. Lui rimane a svuotare i posacenere e a pulire i bicchieri, ormai vuoti, ma se chiude gli occhi rivede tutto daccapo. In culo al mondo non fa sconti.

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