Anche a distanza di venticinque anni (I piedi di Abdullah uscì nel 1996) l’esordio di Hafid Bouazza rimane sorprendente per le sue repentine variazioni di tonalità. A tratti surreale e imprevedibile, a volte fiabesco e sensuale, spesso truculento e boccaccesco, I piedi di Abdullah deve il suo fascino, indiscutibile, alla scrittura di Hafid Bouazza che è un prodigio, un gioco di prestigio, un continuo assalto ai sensi, divertente e ironico, ma molto profondo nel disseminare simboli e metafore e domande. In La città fantasma, primo frammento di I piedi di Abdullah: “La mia prosa assomiglia ai fantasmi della mia memoria: involucri vuoti, epiteti slegati che vagano senz’anima in una città fantasma dove la mia lingua è morta”. Da un villaggio marocchino in cui succede di tutto, a partire dalle ripetute fornicazioni sotto gli ulivi con ogni genere di essere vivente e di ombra latente fino all’utilizzo di verdure usate per soddisfare i sensi (e non dal punto di vista gastronomico), Hafid Bouzza usa tutti i registri possibili per manifestare le distanze culturali e sessuali e nello stesso tempo per ripristinare le proprie radici perché, come dice La città fantasma, “i ricordi sono imprevedibili, tranne che in momenti di indifesa miserevolezza”. Anche nei momenti più sguaiati e irriverenti, o soltanto dionisiaci quando tra l’altro i personaggi in Le uova di Satana si nutrono di “piccioni ripieni di riso, pistacchi, mandorle e uvette, cotti con cipolla, aglio e prezzemolo”, Hafid Bouazza è sempre ispirato e concentrato nel dissimulare il fiume che scorre sotterraneo a I piedi di Abdullah. Si rimane ipnotizzati dalle avventure che comporta “l’ingresso della vita” (a sua volta un gioco di parole tutto da scoprire), dal susseguirsi di gesta picaresche e dalle espressioni colorite, ma un’onda malinconica cresce perché, come ammette Hafid Bouazza, “la memoria è di parte, la mia memoria è pudica e ha lo specchietto retrovisore imbrattato”. E’ il dilemma degli emigranti, il bagaglio di nostalgia e di rimpianto, inevitabili anche se spesso impercettibili e indefinibili, che Hafid Bouzza traduce in Apolline e La traversata, due cardini fondamentali nel dare un senso e una coerenza ai racconti di I piedi di Abdullah. Apolline, pur mantenendo le note istrioniche, impone una brusca variazione, dove il protagonista (con qualche risvolto autobiografico) si trova a godere delle libertà e dei piaceri di Amsterdam. Il contrasto è spontaneo, fortissimo e e comprende la difficoltà del richiamo delle tradizioni e del ritorno a casa. La traversata è uguale e contrario, un riflesso che (già dal titolo) è una sintesi lirica ed emotiva dei viaggi di quelli “vanno dall’altra parte. Se sopravvivono ai prodigi di questo mare”. La conclusione, dopo La traversata, è amara, sincera e attualissima. Se la fuga era necessaria, alla fine l’approdo garantisce solo “circostanze più confortevoli nel senso che non c’era nessuna paura, nessuna illegalità, ma le fatiche erano uguali”. L’umanità di I piedi di Abdullah e per estensione lo stesso Hafid Bouzza resta perplessa pensando “se solo il mondo fosse stato indulgente e disposto a distogliere lo sguardo fischiettando in un istante di paradisiache possibilità”. Già, rimane un bel dubbio. Anche per tutti noi.
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