Rispetto ai
precedenti biografi di Bob Marley (Timothy White e Stephen Davis su
tutti), Chris Salewicz sceglie un approccio a distanza ravvicinata.
Si concentra sull’atmosfera, sugli aspetti conviviali (valgano i
numerosi dettagli sul cibo e sulla vita quotidiana), su particolari
che possono apparire insignificanti (per esempio, l’attenzione
dedicata alle chitarre handmade) e che invece raccontano e rendono
molto bene il senso delle umili radici di Bob Marley. Senza
dimenticare i frangenti più crudeli e atroci, come la fine degli
esecutori dell’attentato del 3 dicembre 1976, altrimenti riportata
da Marlon James in Breve storia di sette
omicidi. D’altra parte la componente
violenta della Giamaica non si può nascondere, così come
l’ambiguità e le usanze truffaldine dell’industria discografica.
Chris Salewicz annota tutto con partecipazione e si affida a numerose
testimonianze dirette, che rendono credibile la sostanza della sua
ricostruzione. Il tono e la direzione sono già chiarissimi
nell’incipit, dove Chris Salewicz racconta il suo incontro con Bob
Marley avvenuto durante la visita, nel 1978, a un detenuto a Gun
Court, un campo di detenzione per chiunque fosse trovato in possesso
anche di un frammento di arma. La Giamaica, scossa da una
serpeggiante guerra civile, se per tradizione “ha avuto un effetto
sproporzionato sulla parte restante del pianeta” si trovava
nell’epicentro delle tensioni della guerra fredda, per almeno due
ragioni concrete: la posizione strategica nei Caraibi (compresa la
vicinanza con Cuba) e la produzione di bauxite, principale componente
dell’alluminio, a sua volta indispensabile per l’industria
aeronautica. Una polveriera in cui la voce di Bob Marley si è
elevata con la sua semplicità, il suo appartenere alla terra, le sue
richieste povere e nello stesso tempo dal valore universale, visto
che, come nota Chris Salewicz, “non è affatto strano che Bob
Marley oggi goda di uno status di icona più prossimo al mito ribelle
di Che Guevara che non a quello di una popstar”. Dal ghetto al
successo internazionale, da Trench Town a Londra, dalla guerra civile
nelle strade giamaicane alle lotte di liberazione africane, Bob
Marley ha attraversato il suo tempo come un profeta, un’identità
definita che Chris Salewicz riporta con grande efficacia, ma
restituendola in tutti i suoi contorni umani. Non sarebbe successo
senza il veicolo ipnotico e contagioso del reggae che contiene “il
religioso, il romantico e il sessuale tutti insieme”, come diceva
il critico musicale giamaicano Garth White, e che Chris Salewicz
colloca nella giusta dimensione, rendendo conto della sua complessa
genesi, dalle influenze del rhythm and blues e del jazz allo ska, dal
rocksteady alle battaglie dei sound system, fino al dub e alle prime
avvisaglie pop e hip-hop. Bob Marley è emerso da questo magma sonoro
e ne è diventato “un archetipo” grazie al coraggio con cui ha
scelto le parole di redenzione e di ribellione, di guerra e di pace,
dell’Africa e di Babilonia, degli schiavi e dei Buffalo
Soldier, dell’amore e della fede. Un
linguaggio intraducibile e paradossale, la cui unicità è stata
recepita worlwide per quello che è: la voce umana (molto umana) di
uno spirito superiore che cantava canzoni di libertà.
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