Dentro Le stanze della soffitta va in scena il paradosso di una solitudine estrema, dolorosa e lacerante, in contrasto con un tran tran brulicante, di lingue, di nazionalità, di espressioni, di umori e che comunque ribadisce in continuazione che “c’è un limite in ogni rapporto”. In una Parigi ombrosa e spigolosa dove si trovare per studiare medicina, la protagonista, iraniana, non riesce nemmeno a sentirsi straniera: vive in una condizione precaria e isolata, ma nello stesso tempo condivide aspettative, ritmi e tempi molto diversi, a partire dal confronto con Naim che è lo studente afghano cui divide proprio Le stanze della soffitta. Il rapporto formale e fin troppo educato con Naim riflette alla perfezione la contraddizione di essere così vicini, eppure così lontani. Compresa l’aggiunta di un curioso pizzico di speculazione storica e geografica, visto che un tempo l’Afghanistan era parte dell’Iran. Tutto ciò conduce la protagonista a concludere che “a dire il vero non ero più nulla da molto tempo, proprio dal momento in cui avevo smesso di interessarmi alla politica. Perché essere qualcosa è davvero faticoso, soprattutto se una volta hai creduto di esserlo e poi sei arrivata alla conclusione che sei diventata qualcosa che non vale niente”. Fosse soltanto quello: oltre al suo coinquilino, deve districarsi tra un imbianchino portoghese e un reduce americano, un’intera e chiassosa famiglia africana e una sequenza di personaggi dall’India, dal Sudan, dalla Giordania, dalla Serbia senza contare, ça va sans dire, i francesi nonché gli onnipresenti supermercati cinesi. L’alienazione è acuita dal lavoro che trova, in un obitorio, dove deve lavare i morti, e dalle difficoltà nell’accostarsi alle differenze, spesso viziate dai luoghi comuni che Tahereh Alavi non perde occasione di sottolineare. Il caos cosmopolita trova la sua apoteosi (e, insieme, una sua definizione) quando conosce una ballerina che era “nata in Giappone da genitori coreani, ma era cresciuta negli Stati Uniti e disponeva di un passaporto canadese. Mi raccontò di essere andata in Arabia Saudita solo per imparare la danza del ventre e di esservi rimasta per dodici anni. Ora si trovava a Parigi e, avendo sposato un francese, si considerava, anche solo per metà, una cittadina di questo paese”. La presentazione è necessaria perché è lei a rispondere, e in un certo senso a risolvere il labirinto delle identità dicendole: “Io sono io, tutto qui”. Le stanze della soffitta è un romanzo che si snoda con un ritmo blando e una trama esile, molto vicina alle pagine di un diario, eppure procede con insistenza nel punteggiare le pagine di suggestioni, che lasciano il campo aperto a molte domande. La modestia sfoggiata dal linguaggio di Tahereh Alavi è pari alla convinzione con cui si confronta con quello che è il mondo di oggi. Con un’attitudine singolare e senza dimenticare le proprie origini perché “è vero che gli occidentali non dubitano mai delle nostre storie, ascoltarle è uno dei loro passatempi più salutari e non perdono mai la loro fede in esse. Ma noi, del terzo o di chissà quale numero di mondo, siamo un libro aperto gli uni per gli altri e piano piano abbiamo imparato a non credere facilmente a ogni parola e ogni storia”. L’ironia, per quanto fragile e leggera, non può sfuggire, perché è la componente destinata a bilanciare il vero frutto di ciò che è, nei fatti, un esilio: quella nostalgia che occupa tutte Le stanze della soffitta, persino i corridoi.
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