Le repentine trasformazioni collezionate con Il mio anno nella baia di nessuno prendono forma con una confessione di Gregor Keuschnig, già protagonista in L’ora del vero sentire e imperfetto alter ego di Peter Handke: “La mia vita ha una direzione che io ritengo buona, bella e ideale, e al tempo stesso l’esistenza di un singolo giorno non è affatto diventata una cosa ovvia. Il fallimento, mio, di altri, sembra addirittura la regola. I miei amici erano soliti dire che prendevo troppo sul serio le cose di poco conto e che ero troppo severo con me stesso. Io invece credo che se non avessi sempre dribblato di nuovo il mio costante fallimento di tutta la vita, ma lo avessi voluto ammettere anche soltanto un’unica volta, non esisterei più”. Le sconfitte esistenziali dipendono, e insieme vengono esorcizzate, dalla “notte del narrare”: la storia in sé è la trama stessa che si genera in contemporanea alla scrittura, attraverso la ripetuta osmosi di identità di Peter Handke con lo scrittore, con Gregor Keuschnig, con il narratore e con se stesso nei molteplici viaggi che poi lo riportano a ritrovare le coordinate mitteleuropee, lungo il corso del Danubio, su entrambi i versanti delle Alpi, sulla dorsale dei Balcani, che sono sempre nei suoi pensieri anche nella “baia” parigina dove si è ritirato per premura verso le sue metamorfosi. E’ così che ci si inoltra così in un labirinto kafkiano, con Gregor Keuschnig nel ruolo di anfitrione ciarliero, brillante, eccessivo che, proprio a metà dei pellegrinaggio, dopo un’apocalisse di parole, di incontri, di ricordi, di chiacchiere, arriva alla conclusione che “soltanto come racconto scritto il mio raccontare è conforme alla mia natura”. Il mio anno nella baia di nessuno ruota tutto intorno a questa convinzione e per il lettore è imperativo trovare il tempo per districarsi nel salmodiare di Gregor Keuschnig, che segue soltanto la sua memoria, una ricerca che “almeno una volta al giorno” si trasforma in “qualcosa di maniacale, prossimo alla follia”. L’impegno richiesto da Peter Handke è notevole e costante, non solo perché Il mio anno nella baia di nessuno è una sterminata, voluminosa riflessione sulla natura stessa della narrativa, che si evolve da un’assioma, ovvero la “fantasia non è illusione”, da solo già più che sufficiente a garantire anni di meditazione, per giungere all’ammissione di un limite, se non di una vera e propria resa, quando Gregor Keuschnig dice che “lì non c’era nient’altro che una sensazione, vasta quanto la superficie dissodata, della quale mentre scrivevo questo, cercai l’immagine, invano”. Bisogna dire che Peter Handke, sapendo che “la cosa osservata, per quanto modesta, poteva trasformarsi nel mondo”, molto abile, attento e saggio nel confezionarsi più di un alibi, visto che Il mio anno nella baia di nessuno si consuma insieme al crepuscolo del ventesimo secolo, con molto più da raccontare “dei nostri giorni che non dei nostri anni, per noi uomini d’oggi”. Uno scarto che rimane irrisolto e se il saldo finale può tornare è soltanto per il soccorso del lettore, ma anche qui Peter Handke sottolinea e precisa perché “il leggere sarebbe poi una passione, meravigliosa, se è un appassionato voler-capire; sento l’urgenza di leggere perché voglio capire. Non leggere a casaccio: per il racconto, per il libro, devi essere ricettivo. Tu sei ricettivo?”, e, sì, la domanda è sempre quella.
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