Il
crepuscolo di Derek Jarman, che in Chroma,
diventa “un libro sul colore”, è una prova di grande coraggio e
generosità. E’ il giugno 1993, se ne sarebbe andato in un paio
d’anni, e nella sua personale “teoria dei colori” Derek Jarman
sa essere erudito, colto e nello stesso tempo semplice e sciolto.
Chroma incanta per la
misura e l’ispirazione con cui racconta (e sembra di sentirlo, con
un filo di voce) il suo rapporto con i colori, come li identifica, li
riconosce e li esalta: “Accendete i colori uno contro l’altro e
loro canteranno. Non in coro, ma come solisti. Che cos’è il colore
della musica celeste se non l’eco del Big Bang nello spettro, che
si ripete come un ritornello”. I suoi voli pindarici sono
sensazionali, eppure denotano una lucidità sorprendente (quando
parla della beneficenza, per esempio: “La beneficenza permette agli
indifferenti di apparire generosi e questo è terribile per quelli
che dipendono da questa scelta. La beneficenza diventa un grande giro
d’affari mentre il governo elude le sue responsabilità in questo
momento di disinteresse sociale. Noi ci adattiamo e così i ricchi e
i potenti che ci hanno fottuto una volta continuano a fotterci e ci
guadagnano sempre. Ci hanno sempre trattato male, per questo se
qualcuno ci dimostra la più piccola simpatia esageriamo nei
ringraziamenti”) e uno stile libero e poetico, comunque capace di
distinguersi (“So che i miei colori non sono i vostri”) e di
difendersi (“Mi dicono che vivo ai margini della società, che cosa
c’entro se il mondo è storto?”), così come di accertare
l’ineffabile essenza dell’arte. Quando Derek Jarman condivide
l’idea di colorare “le piccole mappe murali dell’universo”,
sa anche che il limite del genio e del destino coincidono perché “il
nostro nome sarà dimenticato col tempo, nessuno ricorderà il nostro
lavoro, la nostra vita passerà come scia d’una nuvola, e si
dileguerà come la nebbia inseguita dai raggi del sole, perché il
nostro tempo è il passaggio d’un’ombra, le nostre vite
svaniranno come scintille tra le stoppie”. Chroma
si conclude nel blu, che poi è il suo blues, prima dell’inevitabile
Magia nera e delle
appendici Oro e argento
(“Non possiedo nulla d’argento e d’oro, ma devo dire che ho
ricordi dorati, momenti d’oro e silenzio d’oro, L’oro non è un
colore, s’annida invece sopra i colori per esaltarli”) e delle
Translucenza e
Iridiscenza, ma a quel
punto i colori sono riflessi mentre Derek Jarman pensava “che i
fantasmi fossero silenziosi, lampi di lucciola che scintillano,
creature opalescenti dell’ombra e della notte, oh, come cicalano
invece, debuttanti su scalinate di cristallo, materia iridescente.
Tra lampadari sfolgoranti danzano un foxtrot, chimere di suoni, alghe
oscillanti, sarabande. Quando scompare brindo al mio fantasma con
acquavite, luminosa presenza di vita e di morte”. Un testamento
accorato, un commiato che era già evidente nell’introduzione
(“Nella nostra epoca ci sono molti colori, ma soltanto quattro
erano impiegati dai grandi pittori greci. Ogni cosa era migliore
quando le risorse erano poche. Al giorno d’oggi, è il pregio dei
materiali e non il genio degli artisti che la gente cerca. Ciò a cui
il pubblico è veramente interessato ora sono i realistici ritratti
dei gladiatori. Ogni cosa è l’ombra d’un passato glorioso. I
colori svaniranno nel crepuscolo della storia) e poi in quella frase,
indimenticabile: “Il tempo è ciò che impedisce alla luce di
raggiungerci”. La legge della relatività, a colori. Toccante.
Nessun commento:
Posta un commento