sabato 6 gennaio 2018

Tahar Ben Jelloun

“Fuori, non solo sopra la nostra fossa, ma soprattutto lontano da essa, c'era vita. Non bisognava pensarci troppo, ma mi piaceva evocarla per non morire d’odio. Evocare, non ricordare. La vita, quella vera, non lo straccio sporco che rotola per terra, no, la vita nella sua bellezza squisita, cioè nella sua semplicità, nella sua meravigliosa banalità: un bambino che piange e poi sorride, occhi che si strizzano per una luce troppo forte, una donna che prova un vestito, un uomo che dorme sull'erba. Un cavallo corre nella pianura. Un uomo con ali multicolori cerca di volare. Un albero si piega per fare ombra a una donna seduta su una pietra. Il sole si allontana, e si vede persino un arcobaleno. La vita è poter alzare il braccio, metterlo dietro la nuca, stiracchiarsi per puro piacere, alzarsi e camminare senza meta, guardare la gente che passa, fermarsi, leggere un giornale o semplicemente starsene seduti davanti alla finestra perché non si ha niente da fare ed è bello non fare niente”: è un passo centrale e fondamentale di Il libro del buio e già basta a chiarire le dimensioni di un capolavoro. Asciutto, cupo, grezzo e a tratti crudele, Il libro del buio si snoda con un ritmo rarefatto, metodico e inesorabile che Tahar Ben Jelloun declama instancabile pagina per pagina, come se stesse narrando ad alta voce la vicenda (basata su una storia vera) di un gruppo di prigionieri confinati in un buco oscuro, in mezzo al deserto, per diciott’anni. A loro manca tutto, non solo la luce. Cibo, salute (fisica e mentale), la possibilità di leggere e scrivere, il contatto umano (ognuno è segregato in una cella), le più elementari norme igieniche. Si trovano in una condizione in cui “qualsiasi banalità diventa eccezionale, la cosa più desiderata al mondo”. Sono costretti persino a imparare ad ascoltare i movimenti degli scorpioni, e a rispettarli, per evitare di essere punti, e quando non sono gli elementi naturali, il freddo o l’insonnia, c’è sempre la tortura o il rischio di un’esecuzione sommaria. Sono quelli i termini per cui ogni esperienza legata all’umanità viene azzerata a partire dalla percezione del futuro perché “la speranza era come una negazione. Come far credere a uomini abbandonati da tutti che quel buco era solo una parentesi nella loro vita, che dopo aver subito questa prova ne sarebbero usciti più maturi e migliori? La speranza era una menzogna con le virtù di un calmante. Per superarla, occorreva preparasi quotidianamente al peggio”. Il buio è soltanto una rappresentazione di tutte le incognite, come se fossero già in una tomba, e la morte, che è un ospite tutt’altro che raro, arriva puntuale a ricordarglielo Eppure nel condividere “il tempo che non ha più senso”, nello scoprire “un minuscolo raggio di luce”, forse inventato, forse immaginato, nell’estenuante resistenza, che “è un dovere, non un obbligo”, (e la parola diventa davvero un sinonimo di sopravvivenza), nella dignità di chi sta pagando un prezzo troppo alto, quale che sia la colpa, Il libro del buio si rivela una liricissima elegia alla vita e alla libertà. 

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