“Fuori,
non solo sopra la nostra fossa, ma soprattutto lontano da essa, c'era
vita. Non bisognava pensarci troppo, ma mi piaceva evocarla per non
morire d’odio. Evocare, non ricordare. La vita, quella vera, non lo
straccio sporco che rotola per terra, no, la vita nella sua bellezza
squisita, cioè nella sua semplicità, nella sua meravigliosa
banalità: un bambino che piange e poi sorride, occhi che si
strizzano per una luce troppo forte, una donna che prova un vestito,
un uomo che dorme sull'erba. Un cavallo corre nella pianura. Un uomo
con ali multicolori cerca di volare. Un albero si piega per fare
ombra a una donna seduta su una pietra. Il sole si allontana, e si
vede persino un arcobaleno. La vita è poter alzare il braccio,
metterlo dietro la nuca, stiracchiarsi per puro piacere, alzarsi e
camminare senza meta, guardare la gente che passa, fermarsi, leggere
un giornale o semplicemente starsene seduti davanti alla finestra
perché non si ha niente da fare ed è bello non fare niente”: è
un passo centrale e fondamentale di Il libro del buio e già
basta a chiarire le dimensioni di un capolavoro. Asciutto, cupo,
grezzo e a tratti crudele, Il libro del buio si snoda con un
ritmo rarefatto, metodico e inesorabile che Tahar Ben Jelloun declama
instancabile pagina per pagina, come se stesse narrando ad alta voce
la vicenda (basata su una storia vera) di un gruppo di prigionieri
confinati in un buco oscuro, in mezzo al deserto, per diciott’anni.
A loro manca tutto, non solo la luce. Cibo, salute (fisica e
mentale), la possibilità di leggere e scrivere, il contatto umano
(ognuno è segregato in una cella), le più elementari norme
igieniche. Si trovano in una condizione in cui “qualsiasi banalità
diventa eccezionale, la cosa più desiderata al mondo”. Sono
costretti persino a imparare ad ascoltare i movimenti degli
scorpioni, e a rispettarli, per evitare di essere punti, e quando non
sono gli elementi naturali, il freddo o l’insonnia, c’è sempre
la tortura o il rischio di un’esecuzione sommaria. Sono quelli i
termini per cui ogni esperienza legata all’umanità viene azzerata
a partire dalla percezione del futuro perché “la speranza era come
una negazione. Come far credere a uomini abbandonati da tutti che
quel buco era solo una parentesi nella loro vita, che dopo aver
subito questa prova ne sarebbero usciti più maturi e migliori? La
speranza era una menzogna con le virtù di un calmante. Per
superarla, occorreva preparasi quotidianamente al peggio”. Il buio
è soltanto una rappresentazione di tutte le incognite, come se
fossero già in una tomba, e la morte, che è un ospite tutt’altro
che raro, arriva puntuale a ricordarglielo Eppure nel condividere “il
tempo che non ha più senso”, nello scoprire “un minuscolo raggio
di luce”, forse inventato, forse immaginato, nell’estenuante
resistenza, che “è un dovere, non un obbligo”, (e la parola
diventa davvero un sinonimo di sopravvivenza), nella dignità di chi
sta pagando un prezzo troppo alto, quale che sia la colpa, Il
libro del buio si rivela una liricissima elegia alla vita e alla
libertà.
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