Ricoverato
d’urgenza con lancinanti dolori addominali, Ben Watt, musicista
inglese noto ai più per la collaborazione con la moglie Tracey Thorn
negli Everything But The Girl, si deve confrontare con gli orizzonti
della malattia e del dolore. Una condizione aggravata da un paio di
variabili specifiche. A prima vista, il suo “caso speciale” non
sfugge ai luoghi comuni legati ai vizi e agli abusi dei musicisti e
perfino una frettolosa analisi del fratello gli ribadisce che è
tutto colpa di un “modo di vivere privo di senso”. D’altra
parte, nonostante una lunga teoria di esami, tutto quello che il
personale medico riesce a scoprire è un “disordine
multisistemico”, definizione tanto elaborata quanto vaga.
Inchiodato nel suo letto, diventa Un paziente nel senso più
intimo della parola. Nella sopportazione quotidiana, nell’osservare
la mutazione dei rapporti e dei legami, nel turbinio dei pensieri,
Ben Watt ricorda: “Mi sembrava di essere una creatura in
metamorfosi, che passa dalla vita sott’acqua a quella sulla
terraferma, sviluppando una nuova identità. Ed era già come se
navigassi verso qualche altra parte. Il mio senso dello spazio e del
tempo pareva regredire. La minaccia invisibile che mi teneva lì
bloccato e il desiderio di andarmene via si erano allentati. Adesso
tutto ciò che mi interessava era rendere le cose sopportabili per i
successivi venti minuti o giù di lì”. Ci vogliono diverse
settimane prima che gli venga diagnosticata “una malattia
autoimmune chiamata sindrome di Churg Strauss, un disturbo piuttosto
raro che colpiva individui con trascorsi d’asma e febbre da fieno i
cui sistemi immunitari imprevedibilmente e in modo violento reagivano
dopo un ulteriore ma non necessariamente collegata, stimolazione
antigenica”. Sottoposto a diverse operazioni chirurgiche
(all’intestino), a diete e terapie, Ben Watt passa in ospedale
tutta l’estate del 1992 e Un paziente non è soltanto il
diario dettagliato e puntiglioso della degenza, quando doveva
combattere con tutta la terminologia scientifica, le preoccupanti
visioni del futuro e lo spasmodico desiderio di “essere in qualche
campo all’aperto in estate, col cielo sopra la mia testa, e Tracey
(Thorn) che mi correva davanti, fuori dal tempo reale”. Con grazia,
a volte addirittura con ironia, è una riflessione sulla nostra
fragilità, di solito nascosta da “un differente ritmo che si
svolge dentro le nostre teste in continuazione, un flusso continuo,
una corrente di pensieri e parole, che vociano e rimbalzano nel
nostro cranio per tutte le ore di veglia”. Costretto a spogliarsi
(metaforicamente e non), indifeso, debole, annoiato, a Ben Watt, e
per esteso a tutti i “pazienti”, resta un’unica protezione
nell’elogio della normalità fino a quando un senso non giunge
“dalla solitudine e dalla calma, dall’accettazione,
dall’adattabilità, dalla gratitudine e dal fare pace con se
stessi”. Al libro manca soltanto il lieto fine: dopo essersi
ristabilito, Ben Watt ha ripreso e ampliato le sue attività
discografiche, pubblicando tra l’altro uno dei suoi album più
belli in assoluto, Fever Dream.
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