sabato 2 dicembre 2017

Enrique Vila-Matas

Spiegare un complotto non è facile. Figurarsi spiegarne uno che non aveva scopi, se non quello di trovare una forma all’illusione che, a ben vedere, è già una sorta di cospirazione. Avanziamo a piccoli passi, e cominciamo dall’inizio quando Tristan Tzara ispira, come lo descrive l’alchimista Aleister Crowley “un genere letterario che, secondo lui, è caratterizzato dal fatto di non avere un sistema da proporre, ma solo un’arte di vivere. In un certo senso, più che letteratura è vita”. Ecco la pietra angolare del tempio della società shandy che tradotta e aggiornata si risolve nell’ordine del giorno che prevede per tutti i (segreti) congiurati “spirito innovatore, massima sensualità, mancanza di grandi propositi, nomadismo instancabile, forte convivenza con la figura del proprio doppio, simpatia per la negritudine, esercizio dell’arte dell’insolenza”. E’ un programma vasto e criptico da affrontare, con punti di criticità assoluta già nella sua conclusione (“E’ bene considerare che l’insolenza, quando si manifesta, lo fa sempre in relazione agli altri, attraverso un movimento che tiene conto intensamente dell’altro”) e che nel mondo in cui vige ancora una maledetta realtà appariva una chimera. Gli stessi shandy tendevano a soluzioni di comunicazione improprie come quella usata da Francis Picabia: “Parlavamo in silenzio e la nostra conversazione era tra le più interessanti che si possano immaginare; altre parole, pronunciate e ordinate per essere udite, non avrebbero mai potuto ottenere l’effetto di tale silenzio”. O pensavano rivolti a dimensioni parallele dove le contraddizioni erano l’aria da respirare come scriveva George Antheil: “L’inutile è bello perché meno reale dell’utile, che permane a lungo; invece il meraviglioso futile, il glorioso infinitesimale, si ferma dov’è, rimane quello che è, vive libero e indipendente”. Tutto ciò (e molto altro: dagli odradek al suicidio, dall’Europa tra le due guerre mondiali alla boîte en valise di Marchel Duchamp) non avrebbe senso confinato all’interno della cosiddetta normalità, ma anche nei contorni di un’utopia. Per identificare, anche da un punto di vista geografico, la “letteratura portatile” degli shandy ci viene in soccorso l’epigrafe di Paul Valéry che ha il compito (assolto con formula piena) di riassumere, introdurre e accendere la Storia abbreviata della letteratura portatile raccontata da Enrique Vila-Matas: “L’infinito, mio caro, è ben poca cosa: è una questione di scrittura. L’universo esiste solamente sulla carta”. Le dimensioni, contano, eccome, la parafrasi di Enrique Vila-Matas parte dalla “storia portatile della letteratura abbreviata” di Tristan Tzara, nei cui piccoli libri era nascosta una magia (perché “miniaturizzare significa anche occultare”) che Marchel Duchamp ha rivelato così: “Ciò che viene ridotto diviene in un certo modo libero di significato. La sua piccolezza è allo stesso tempo un tutto e un frammento. L’amore per il minuscolo è un’emozione infantile”. Da lì Enrique Vila-Matas conduce alla ricostruzione dei legami e dei dialoghi di una compagnia internazionale dove è centrale l’intersecarsi di suggestioni, amicizie, scambi e confronti in cui hanno avuto ruoli da protagonisti, tra gli altri, anche Francis Scott Fitzgerald, Georgia O’Keefe e Walter Benjamin, convenuti e congiurati nel nome dell’arte e dell’allegria.

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