Spiegare
un complotto non è facile. Figurarsi spiegarne uno che non aveva
scopi, se non quello di trovare una forma all’illusione che, a ben
vedere, è già una sorta di cospirazione. Avanziamo a piccoli passi,
e cominciamo dall’inizio quando Tristan Tzara ispira, come lo
descrive l’alchimista Aleister Crowley “un genere letterario che,
secondo lui, è caratterizzato dal fatto di non avere un sistema da
proporre, ma solo un’arte di vivere. In un certo senso, più che
letteratura è vita”. Ecco la pietra angolare del tempio della
società shandy che tradotta e aggiornata si risolve nell’ordine
del giorno che prevede per tutti i (segreti) congiurati “spirito
innovatore, massima sensualità, mancanza di grandi propositi,
nomadismo instancabile, forte convivenza con la figura del proprio
doppio, simpatia per la negritudine, esercizio dell’arte
dell’insolenza”. E’ un programma vasto e criptico da
affrontare, con punti di criticità assoluta già nella sua
conclusione (“E’ bene considerare che l’insolenza, quando si
manifesta, lo fa sempre in relazione agli altri, attraverso un
movimento che tiene conto intensamente dell’altro”) e che nel
mondo in cui vige ancora una maledetta realtà appariva una chimera.
Gli stessi shandy tendevano a soluzioni di comunicazione improprie
come quella usata da Francis Picabia: “Parlavamo in silenzio e la
nostra conversazione era tra le più interessanti che si possano
immaginare; altre parole, pronunciate e ordinate per essere udite,
non avrebbero mai potuto ottenere l’effetto di tale silenzio”. O
pensavano rivolti a dimensioni parallele dove le contraddizioni erano
l’aria da respirare come scriveva George Antheil: “L’inutile è
bello perché meno reale dell’utile, che permane a lungo; invece il
meraviglioso futile, il glorioso infinitesimale, si ferma dov’è,
rimane quello che è, vive libero e indipendente”. Tutto ciò (e
molto altro: dagli odradek al suicidio, dall’Europa tra le due
guerre mondiali alla boîte en valise di Marchel Duchamp) non avrebbe
senso confinato all’interno della cosiddetta normalità, ma anche
nei contorni di un’utopia. Per identificare, anche da un punto di
vista geografico, la “letteratura portatile” degli shandy ci
viene in soccorso l’epigrafe di Paul Valéry che ha il compito
(assolto con formula piena) di riassumere, introdurre e accendere la
Storia abbreviata della letteratura
portatile raccontata da Enrique Vila-Matas: “L’infinito,
mio caro, è ben poca cosa: è una questione di scrittura. L’universo
esiste solamente sulla carta”. Le dimensioni, contano, eccome, la
parafrasi di Enrique Vila-Matas parte dalla “storia portatile della
letteratura abbreviata” di Tristan Tzara, nei cui piccoli libri era
nascosta una magia (perché “miniaturizzare significa anche
occultare”) che Marchel Duchamp ha rivelato così: “Ciò che
viene ridotto diviene in un certo modo libero di significato. La sua
piccolezza è allo stesso tempo un tutto e un frammento. L’amore
per il minuscolo è un’emozione infantile”. Da lì Enrique
Vila-Matas conduce alla ricostruzione dei legami e dei dialoghi di
una compagnia internazionale dove è centrale l’intersecarsi di
suggestioni, amicizie, scambi e confronti in cui hanno avuto ruoli da
protagonisti, tra gli altri, anche Francis Scott Fitzgerald, Georgia
O’Keefe e Walter Benjamin, convenuti e congiurati nel nome
dell’arte e dell’allegria.
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