Scriveva
Josip Osti, lo straordinario poeta del Libro
dei morti di Sarajevo: “Non
chiedere se questa guerra è realtà, o un ricordo del passato”. Il
tempo nei Balcani ha sempre avuto un valore storico biunivoco.
Bisogna ricordare per esistere. Bisogna dimenticare per sopravvivere.
Solo in apparenza è una contraddizione: la frammentazione politica,
territoriale e umana che ha generato la migrazione e l’esilio di
interi popoli, a partire dai loro intellettuali, Dubravka Ugrešić
compresa, nasce proprio dalla rottura di quel difficile, se non
impossibile, equilibrio tra memoria ed oblio. Lo sforzo in Il
museo della resa incondizionata è
apprezzabile perché rende alla perfezione il momento del collasso
visto che Dubravka Ugrešić è una scrittrice con il gusto maniacale
del particolare, del dettaglio, dell’infinitesimale e nel suo
essere straniera riesce veramente a vedere “l’oscurità del
mondo”, come la definisce Joseph Brodskij. Madre, figlia, amiche,
donne: i ricordi si intrecciano partendo da un’immagine scolorita e
seguendo i percorsi di un esilio infinito dato che “la vita non è
altro che un album di fotografie. Solo quel che c’è nell’album
esiste. Quello che nell’album manca, non è nemmeno accaduto”. La
conclusione a cui giunge Dubravka Ugrešić è che “la creazione
della realtà è l’attività della vera letteratura” e la
responsabilità di supplire a ciò che manca è implicita nella
connotazione che determina Il museo
della resa incondizionata. Compresa
l’apologia del dilettante, un passaggio quanto mai utile per
comprendere la predisposizione (molto istintiva) di Dubravka Ugrešić:
“Il vantaggio del dilettantismo rispetto al professionismo
(chiamiamolo così in mancanza di un termine migliore), o addirittura
la differenza tra i due, è contenuta in un determinato punto di
dolore indefinito, dolore che l’opera amatoriale, come le
percezioni extrasensoriali, può centrare suscitando di conseguenza
un’identica sensazione nell’osservatore o nel lettore. Le
sontuose strategie della cosiddetta opera d’arte raramente centrano
tale punto. Il punto di dolore è meta casuale solo dei beati
dilettanti, meta che unicamente loro, senza nemmeno sapere di che si
tratti, riescono a centrare”. Allora è un’immagine,
un’istantanea, il tentativo di fissare un attimo, anche
nell’infinita terra di nessuno dell’esilio europeo: “E d’un
tratto mi venne in mente che a Lisbona avevo comprato un biglietto
della lotteria e vinto un raro premio: la momentanea sensazione che
niente, in realtà, è perduto, che perciò non c’è motivo di
lamentarsi, che tutto esiste da qualche parte, così come noi
esistiamo sparpagliati in ogni dove, che tutto da qualche parte si
somma, che tutto è collegato”. Se bastasse una piccola epifania,
sarebbe tutto risolto: il limite intrinseco è che Il
museo della resa incondizionata si
attorciglia attorno alle immagini, ai ricordi, persino ai sogni (“Il
sogno è un campo magnetico che attira immagini dal passato, dal
presente e dal futuro”) e tutto ciò è insieme metafora e
realtà dell’esilio, che diventa una gabbia decadente, e a tratti
anche autoreferenziale. Un libro, sì, “prezioso”, come ha detto
qualcuno, ed è vero come scrive Predrag Matvejević
nell’introduzione, che “la letteratura non ha l’obbligo di dare
giudizi”, ma avrebbe anche tutte le potenzialità per ripristinare
l’equilibrio tra oblio e memoria che qui,
nelle floride pagine di Dubravka Ugrešić, si perdono attorno ad una
fotografia ingiallita, un ricordo che non serve più.
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