sabato 9 dicembre 2017

John Berger

Le ultime annotazioni di John Berger sono un lascito importante che riflettono fino in fondo la sua natura di meraviglioso outsider. Si tratta di frammenti scritti tra il 2014 e il 2016: brevi, efficaci, lucidissimi. Con grande naturalezza e semplice eleganza John Berger ritorna su temi che gli sono particolarmente cari: la scrittura (“Scrivere è per me un’attività vitale, mi aiuta a orientarmi e ad andare avanti. La scrittura, tuttavia, germoglia da qualcosa di più profondo e di più generale: il nostro rapporto con la lingua in quanto tale”), la politica (“Oggi la tirannia globale del capitalismo finanziario speculativo, che usa i governi come propri negrieri, e i media mondiali come spacciatori di droga, questa tirannia il cui unico obiettivo è il profitto e l’accumulazione incessante, ci impone una visione e un modello di vita convulsi, precari, implacabili, inesplicabili”) e le sue vacue espressioni (“Il discorso politico che oggi va per la maggiore è composto di parole che, separate da una qualsiasi creatura-lingua, sono inerti e sterili. Tale propaganda verbale priva di vita spazza via la memoria e genera un feroce autocompiacimento”), l’osservazione (“La soddisfazione di identificare un uccello vivente mentre vola sopra di noi, o scompare in una siepe, è strana, non è vero? Comporta una bizzarra intimità momentanea, come se nell’istante in cui lo riconosciamo apostrofassimo l’uccello, malgrado il frastuono e la confusione di innumerevoli altri eventi, chiamandolo proprio con il suo particolare nomignolo”) e poi l’arte. Il ritratto di Charlie Chaplin e quello di Michael Quanne, gli schizzi e le improvvisazioni riportano sempre all’idea centrale di “un certo ideale di indocile felicità, un ideale che si fonda su una memoria condivisa, in parte frutto di invenzione, in parte reale, di estati infantili, sole, acqua e giornate che non finiscono mai”. In questo senso è molto bello ed emblematico l’intero capitolo dedicato alla forma della canzone, un’espressione ricca ed eloquente della natura delle osservazioni di John Berger che cita, tra gli altri, Bessie Smith, Johnny Cash, Woody Guthrie e Fabrizio De Andrè, prima, e Tom Waits, dopo. John Berger è prodigo di suggerimenti e suggestioni e se, come un fiume carsico, una certa vena polemica affiora di volta in volta (“Oggi quel che fa girare il mondo è la prossima acquisizione immediata: il prossimo accordo e prestito per la finanza, il prossimo acquisto per i consumatori. Qualsiasi idea di storia che colleghi passato e futuro è stata messa ai margini se non eliminata. E così soffriamo di un senso di solitudine storica”) per poi sparire, quello che cerca davvero è “una tolleranza per gli amori impacciati, l’ineleganza, le occasioni mancate, le schiene lentigginose, i mormorii equivoci, i capelli sudati, i piedi accaldati: la vita così come è”. Ecco, Confabulazioni è proprio John Berger, anche nell’intima riflessione che lo spinge a confessare: che è stato spinto a scrivere dalla “sensazione che ci sia qualcosa che va raccontato e che rischia, se io non provo a farlo, di non essere raccontato. Mi vedo più come un tappabuchi che come un influente scrittore di professione”. Una lezione (più di una) da non dimenticare.

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