Le
ultime annotazioni di John Berger sono un lascito importante che
riflettono fino in fondo la sua natura di meraviglioso outsider. Si
tratta di frammenti scritti tra il 2014 e il 2016: brevi, efficaci,
lucidissimi. Con grande naturalezza e semplice eleganza John Berger
ritorna su temi che gli sono particolarmente cari: la scrittura
(“Scrivere è per me un’attività vitale, mi aiuta a orientarmi e
ad andare avanti. La scrittura, tuttavia, germoglia da qualcosa di
più profondo e di più generale: il nostro rapporto con la lingua in
quanto tale”), la politica (“Oggi la tirannia globale del
capitalismo finanziario speculativo, che usa i governi come propri
negrieri, e i media mondiali come spacciatori di droga, questa
tirannia il cui unico obiettivo è il profitto e l’accumulazione
incessante, ci impone una visione e un modello di vita convulsi,
precari, implacabili, inesplicabili”) e le sue vacue espressioni
(“Il discorso politico che oggi va per la maggiore è composto di
parole che, separate da una qualsiasi creatura-lingua, sono inerti e
sterili. Tale propaganda verbale priva di vita spazza via la memoria
e genera un feroce autocompiacimento”), l’osservazione (“La
soddisfazione di identificare un uccello vivente mentre vola sopra di
noi, o scompare in una siepe, è strana, non è vero? Comporta una
bizzarra intimità momentanea, come se nell’istante in cui lo
riconosciamo apostrofassimo l’uccello, malgrado il frastuono e la
confusione di innumerevoli altri eventi, chiamandolo proprio con il
suo particolare nomignolo”) e poi l’arte. Il ritratto di Charlie
Chaplin e quello di Michael Quanne, gli schizzi e le improvvisazioni
riportano sempre all’idea centrale di “un certo ideale di
indocile felicità, un ideale che si fonda su una memoria condivisa,
in parte frutto di invenzione, in parte reale, di estati infantili,
sole, acqua e giornate che non finiscono mai”. In questo senso è
molto bello ed emblematico l’intero capitolo dedicato alla forma
della canzone, un’espressione ricca ed eloquente della natura delle
osservazioni di John Berger che cita, tra gli altri, Bessie Smith,
Johnny Cash, Woody Guthrie e Fabrizio De Andrè, prima, e Tom Waits,
dopo. John Berger è prodigo di suggerimenti e suggestioni e se, come
un fiume carsico, una certa vena polemica affiora di volta in volta
(“Oggi quel che fa girare il mondo è la prossima acquisizione
immediata: il prossimo accordo e prestito per la finanza, il prossimo
acquisto per i consumatori. Qualsiasi idea di storia che colleghi
passato e futuro è stata messa ai margini se non eliminata. E così
soffriamo di un senso di solitudine storica”) per poi sparire,
quello che cerca davvero è “una tolleranza per gli amori
impacciati, l’ineleganza, le occasioni mancate, le schiene
lentigginose, i mormorii equivoci, i capelli sudati, i piedi
accaldati: la vita così come è”. Ecco, Confabulazioni è
proprio John Berger, anche nell’intima riflessione che lo spinge a
confessare: che è stato spinto a scrivere dalla “sensazione che ci
sia qualcosa che va raccontato e che rischia, se io non provo a
farlo, di non essere raccontato. Mi vedo più come un tappabuchi che
come un influente scrittore di professione”. Una lezione (più di
una) da non dimenticare.
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