giovedì 14 dicembre 2017

Ian McEwan

Il funerale di Molly Lane è soltanto un’occasione per mettere in scena l’impossibile congruenza delle pubbliche relazioni. La conoscevano tutti, soltanto che il tempo ha scarnificato gli esili fili che annodavano le vite. Nel caso di John Julian Garmony, gli anni passati sono coincisi con la carriera: è ministro spregiudicato e ambiguo, e , a breve termine, ha un luminoso futuro politico davanti. Gli altri amici, convenuti già nell’incipit di Amsterdam, sono Clive, compositore e direttore d’orchestra, e Vernon, direttore di un giornale bisognoso di cure, strategie e lettori. La dipartita di Molly lascia trasparire molte cicatrici e, nelle pieghe del suo lascito, compaiono a sorpresa alcune foto (molto) imbarazzanti di Julian. Vernon deve decidere se pubblicarle oppure lasciarle nell’oscurità. Senza dubbio, quelle immagini hanno il potere di stroncare ogni velleità di Julian, ma nel dubbio Vernon coinvolge anche Clive e a quel punto il conflitto di Amsterdam diventa evidente perché “sappiamo così poco gli uni degli altri. Viviamo la nostra esistenza semisommersi, come masse di ghiaccio fluttuante, e spingiamo a galla soltanto la parte di noi presentabile, quella più bianca e compatta. Ed ecco qui invece una rara immagine scattata sotto il pelo dell’acqua, il ritratto del tormento intimo di un uomo, della sua dignità rovesciata dallo schiacciante bisogno di pura immaginazione, puro pensiero, dall’irriducibile forza umana per eccellenza: la mente”. Non c’è dubbio che, anche in Amsterdam, Ian McEwan abbia assemblato la decadenza dei costumi, l’intreccio linguistico, e l’immaginario stesso di una nazione e, insieme, di un’idea di vita sociale. Fin dall’inizio, è un tentativo di ripetere le geometrie di L’amore fatale, un romanzo che gli è contemporaneo e parallelo: atmosfere, temi e persino i personaggi sembrano gli stessi, sempre trascinati dai loro dilemmi, sempre coinvolti nelle distorsioni tra pubblico e privato, nella biunivocità di rapporti che tendono a confondere la trama con il pensiero, i dialoghi con le descrizioni, l’ambiente con il paesaggio, il comico con il grottesco. Il paradosso è che l’abilità di Ian McEwan è proprio questa e, in Amsterdam, ne è consapevole al punto di rivelare senza pudore la chiave di volta, quando scrive: “La comunicazione scritta concede ampio spazio al fraintendimento. Basta spostare l’enfasi di quanto si legge da un termine a un altro per modificare un messaggio. La stessa parola del resto può avere più di un significato: rifiuto può indicare l’atto di dire no a qualcosa che si ritiene sbagliato, ma può essere anche un avanzo, un sinonimo di spazzatura”. Amsterdam sembra davvero muoversi e giocare dentro questa compiaciuta certezza e proprio dove Ian McEwan offriva immagini rapide, brucianti, immediate, qui sembra crogiolarsi nell’eccezionale qualità della scrittura, ormai conclamata. Ne esce un romanzo costruito con mestiere, raffinato e seducente, ma che lascia molti interrogativi irrisolti e che sembra suggerire, più che chiarire, appuntare, più che descrivere, inventare, più che definire. E’ giusto così, in fondo, perché Ian McEwan gioca spesso con il lettore sul filo del rasoio, solo che in Amsterdam forse ha barato un po’. 

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