Il
funerale di Molly Lane è soltanto un’occasione per mettere in
scena l’impossibile congruenza delle pubbliche relazioni. La
conoscevano tutti, soltanto che il tempo ha scarnificato gli esili
fili che annodavano le vite. Nel caso di John Julian Garmony, gli
anni passati sono coincisi con la carriera: è ministro
spregiudicato e ambiguo, e , a breve termine, ha un luminoso futuro
politico davanti. Gli altri amici, convenuti già nell’incipit di
Amsterdam, sono Clive, compositore e direttore d’orchestra,
e Vernon, direttore di un giornale bisognoso di cure, strategie e
lettori. La dipartita di Molly lascia trasparire molte cicatrici e,
nelle pieghe del suo lascito, compaiono a sorpresa alcune foto
(molto) imbarazzanti di Julian. Vernon deve decidere se pubblicarle
oppure lasciarle nell’oscurità. Senza dubbio, quelle immagini
hanno il potere di stroncare ogni velleità di Julian, ma nel dubbio
Vernon coinvolge anche Clive e a quel punto il conflitto di Amsterdam
diventa evidente perché “sappiamo così poco gli uni degli altri.
Viviamo la nostra esistenza semisommersi, come masse di ghiaccio
fluttuante, e spingiamo a galla soltanto la parte di noi
presentabile, quella più bianca e compatta. Ed ecco qui invece una
rara immagine scattata sotto il pelo dell’acqua, il ritratto del
tormento intimo di un uomo, della sua dignità rovesciata dallo
schiacciante bisogno di pura immaginazione, puro pensiero,
dall’irriducibile forza umana per eccellenza: la mente”. Non c’è
dubbio che, anche in Amsterdam, Ian McEwan abbia assemblato la
decadenza dei costumi, l’intreccio linguistico, e l’immaginario
stesso di una nazione e, insieme, di un’idea di vita sociale. Fin
dall’inizio, è un tentativo di ripetere le geometrie di L’amore
fatale, un romanzo che gli è contemporaneo e parallelo:
atmosfere, temi e persino i personaggi sembrano gli stessi, sempre
trascinati dai loro dilemmi, sempre coinvolti nelle distorsioni tra
pubblico e privato, nella biunivocità di rapporti che tendono a
confondere la trama con il pensiero, i dialoghi con le descrizioni,
l’ambiente con il paesaggio, il comico con il grottesco. Il
paradosso è che l’abilità di Ian McEwan è proprio questa e, in
Amsterdam, ne è consapevole al punto di rivelare senza pudore
la chiave di volta, quando scrive: “La comunicazione scritta
concede ampio spazio al fraintendimento. Basta spostare l’enfasi di
quanto si legge da un termine a un altro per modificare un messaggio.
La stessa parola del resto può avere più di un significato: rifiuto
può indicare l’atto di dire no a qualcosa che si ritiene
sbagliato, ma può essere anche un avanzo, un sinonimo di
spazzatura”. Amsterdam sembra davvero muoversi e giocare
dentro questa compiaciuta certezza e proprio dove Ian McEwan offriva
immagini rapide, brucianti, immediate, qui sembra crogiolarsi
nell’eccezionale qualità della scrittura, ormai conclamata. Ne
esce un romanzo costruito con mestiere, raffinato e seducente, ma che
lascia molti interrogativi irrisolti e che sembra suggerire, più che
chiarire, appuntare, più che descrivere, inventare, più che
definire. E’ giusto così, in fondo, perché Ian McEwan gioca
spesso con il lettore sul filo del rasoio, solo che in Amsterdam
forse ha barato un po’.
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