Dalle alture
del Golan alle foreste del Mozambico, dagli altipiani della Bolivia a
Beirut, dal Guatemala alla Giordania, Kapuściński affronta, vive,
racconta i movimenti di liberazione e d’indipendenza, le dittature
e i colpi di stato, i guerriglieri e i terroristi, le speranze e gli
incubi del mondo postcoloniale tra il 1969 e il 1974. Anche se ormai
risale a quasi quarant’anni fa (la somma di questi dieci reportage
risale al 1975) questo giro del mondo attraverso i conflitti dell’era
postcoloniale successiva alla seconda guerra mondiale, meritava di
essere riscoperto nella folta bibliografia di Kapuściński. Non
soltanto perché gran parte delle questioni territoriali, politiche e
militari che affrontò sono rimaste irrisolte (va da sé che le
pagine sul Medio Oriente sembrano scritte ieri): per quanto
attentissimo alle dinamiche locali e internazionali, alla formazione
della storia “dal basso”, Kapuściński è sempre stato capace di
irradiare dal suo lavoro sul campo una comprensione di carattere
universale sulla natura fallace dell’uomo e delle sue istituzioni.
Mentre racconta le tragedie della Bolivia nella corposa parte
centrale dedicata all’America Latina, Kapuściński non può fare a
meno di notare che gran parte dei problemi, se non tutti, derivano
dal cinismo e dal calcolo politico e scrive nei suoi dispacci da La
Paz: “Qualcuno ha saggiamente osservato che in politica non occorre
fare nulla: metà dei problemi è comunque irrisolvibile e l’altra
metà è destinata a risolversi da sola. L’essenziale in politica,
è sapere aspettare: il più bravo a farlo vince la partita”. In
quegli anni l’attesa era giusto tra un golpe e l’altro e i
politici si sovrapponevano ai militari e viceversa nel generare,
stagione dopo stagione, regimi che si nutrivano di terrore, di
silenzio, di complicità e di quel ribaltamento della realtà e della
morale che è la prima fonte di potere della tirannia perché “visto
che le colpe le espiano gli innocenti, uno può morire perché non ha
ucciso. In questo modo, quanto più uno è innocente, tanto più è
colpevole. Quindi, quanto più uno è innocente, tanto più ha
paura”. Kapuściński non sfugge agli elenchi dei massacri, delle
torture, delle sparizioni, delle liste di proscrizione, delle
connivenze e degli interessi, eppure continua a cercare il lato
umano, spiega fino in fondo che tra morire ribelli e morire innocenti
non c’è differenza. C’è una frase riferita al conflitto tra
palestinesi e Israele che vale per tutti: “Qui, infatti, non si
permette a nessuno di vivere tra le stelle. Qui ti trascinano sulla
terra perché tu veda il sangue seccarsi e senta esplodere le bombe”.
Leggendo Kapuściński sembra proprio che il suo sguardo sia partito
da lì, da qualche millimetro tra la polvere, come lascia intuire il
bellissimo, toccante finale. Piccola, ma urgente postilla: nel
raccontare la facilità con cui nell’America Latina di quegli anni
si poteva finire in una lista di nemici pubblici e poi finire
desaparecido, Kapuściński spiega che le dittature “considerano
comunista chiunque la pensi diversamente da loro o, più
semplicemente, chiunque pensi”.
Questa l’abbiamo già sentita, da qualche parte.
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