Durante
una campagna bellica del 1922, una brigata dell’esercito greco
cerca di sopravvivere, impigliata in una guerra senza senso, se mai
la guerra in sé ne avrà uno, in rotta nel nulla del deserto
ottomano. Incalzata dal nemico e dai suoi spettri, la ritirata
diventa Il labirinto in cui si confondono i suoi protagonisti.
Un comandante morfinomane e consumato dai rimorsi, misteriosi
provocatori marxisti che si nascondono tra gli ufficiali, un
cappellano sornione e sbandato e tutti i soldati che cercano di
sopravvivere un giorno dopo l’altro. Il percorso, quasi biblico nel
suo svolgersi contro la fame, la polvere, il destino, porta
lentamente alla disgregazione dell’organizzazione militare, ma
anche della più intima e semplice delle speranze, ovvero quello di
lasciare il fronte ancora interi. L’orizzonte psicologico in cui ci
si perde con Il labirinto è proprio lì e Panos Karnezis
riesce a sviluppare con meticolosa precisione la vita quotidiana di
soldati sconfitti e sofferenti, che si regge su pratiche semplici e
dirette: “Quando vengono meno il valore, il patriottismo e la fede
religiosa, è la disciplina a offrire un po’ di consolazione,
dimostrando che nel mondo esiste ancora qualche forma di ordine. E
basta così poco per raggiungere certi risultati: una lucidatina a un
paio di stivali infangati, la sostituzione di alcuni bottoni
mancanti, una spallina strappata ricucita e sistemata di nuovo al
posto giusto”. Come si vedrà, attraversando Il labirinto,
non sempre quelle attenzioni sono sufficienti, soprattutto quando i
soldati si ritrovano, in un piccola città dell’Anatolia, a
confrontarsi con tutto quello che pensavano di aver dimenticato. Il
contatto con una parvenza di civiltà scatena reazioni impreviste e
acuisce tutte le fratture che serpeggiano nella brigata, il cui
destino è andare oltre, verso il mare, l’ultima tappa per tornare
a casa sani e salvi. L’abilità, non comune, di Panos Karnezis non
è solo nel ricreare le dolorose (a volte, tragiche) condizioni
quotidiane, ma anche la complessità sul piano emotivo della
composita umanità della brigata. C’è anche qualcosa in più. Se
l’atmosfera generale, dal deserto a quel nemico che non arriva mai,
rimanda facilmente a Dino Buzzati, nell’asprezza che Il
labirinto si porta dietro non mancano di giungere appunti che si
legano chiaramente con l’attualità, dalla disinformazione nei
gironi della sconfitta (“Dal momento in cui le cose hanno
cominciato a volgere al peggio, si sono messi a ripubblicare i vecchi
articoli cambiando i nomi e le date”) a una visione non casuale
della storia, dei suoi cicli e del suo tempo (“La storia si misura
con i secoli: non con quanto è accaduto ieri”). Come se il 1922
non fosse così lontano, perché la guerra non cambia mai e, nella
sua fuga, la brigata assorbe e rispecchia tutto un mondo brullo e
arido come la steppa anatolica. Con questo, Il labirinto non
manca di momenti grotteschi e (molto) divertenti, piccoli abbagli
luminosi di un viaggio tormentato, drammatico nella sua consistenza
ed epico nello svolgersi.
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