venerdì 15 dicembre 2017

Panos Karnezis

Durante una campagna bellica del 1922, una brigata dell’esercito greco cerca di sopravvivere, impigliata in una guerra senza senso, se mai la guerra in sé ne avrà uno, in rotta nel nulla del deserto ottomano. Incalzata dal nemico e dai suoi spettri, la ritirata diventa Il labirinto in cui si confondono i suoi protagonisti. Un comandante morfinomane e consumato dai rimorsi, misteriosi provocatori marxisti che si nascondono tra gli ufficiali, un cappellano sornione e sbandato e tutti i soldati che cercano di sopravvivere un giorno dopo l’altro. Il percorso, quasi biblico nel suo svolgersi contro la fame, la polvere, il destino, porta lentamente alla disgregazione dell’organizzazione militare, ma anche della più intima e semplice delle speranze, ovvero quello di lasciare il fronte ancora interi. L’orizzonte psicologico in cui ci si perde con Il labirinto è proprio lì e Panos Karnezis riesce a sviluppare con meticolosa precisione la vita quotidiana di soldati sconfitti e sofferenti, che si regge su pratiche semplici e dirette: “Quando vengono meno il valore, il patriottismo e la fede religiosa, è la disciplina a offrire un po’ di consolazione, dimostrando che nel mondo esiste ancora qualche forma di ordine. E basta così poco per raggiungere certi risultati: una lucidatina a un paio di stivali infangati, la sostituzione di alcuni bottoni mancanti, una spallina strappata ricucita e sistemata di nuovo al posto giusto”. Come si vedrà, attraversando Il labirinto, non sempre quelle attenzioni sono sufficienti, soprattutto quando i soldati si ritrovano, in un piccola città dell’Anatolia, a confrontarsi con tutto quello che pensavano di aver dimenticato. Il contatto con una parvenza di civiltà scatena reazioni impreviste e acuisce tutte le fratture che serpeggiano nella brigata, il cui destino è andare oltre, verso il mare, l’ultima tappa per tornare a casa sani e salvi. L’abilità, non comune, di Panos Karnezis non è solo nel ricreare le dolorose (a volte, tragiche) condizioni quotidiane, ma anche la complessità sul piano emotivo della composita umanità della brigata. C’è anche qualcosa in più. Se l’atmosfera generale, dal deserto a quel nemico che non arriva mai, rimanda facilmente a Dino Buzzati, nell’asprezza che Il labirinto si porta dietro non mancano di giungere appunti che si legano chiaramente con l’attualità, dalla disinformazione nei gironi della sconfitta (“Dal momento in cui le cose hanno cominciato a volgere al peggio, si sono messi a ripubblicare i vecchi articoli cambiando i nomi e le date”) a una visione non casuale della storia, dei suoi cicli e del suo tempo (“La storia si misura con i secoli: non con quanto è accaduto ieri”). Come se il 1922 non fosse così lontano, perché la guerra non cambia mai e, nella sua fuga, la brigata assorbe e rispecchia tutto un mondo brullo e arido come la steppa anatolica. Con questo, Il labirinto non manca di momenti grotteschi e (molto) divertenti, piccoli abbagli luminosi di un viaggio tormentato, drammatico nella sua consistenza ed epico nello svolgersi. 

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