lunedì 20 ottobre 2025

Cameron Stewart

Non c’è una risposta alla domanda compresa nel titolo, come non c’è quando una perdita, il lutto, il senso di colpa, il rimpianto scavano nelle profondità dell’anima. Perché i cavalli corrono? (nella traduzione di Barbara Ronca), potente esordio di Cameron Stewart, esplora il tentativo di ricomporre un quadro che non si può ricomporre, come se la tragica forza del dolore fosse un inesorabile buco nero. Ingvar, la cui formazione razionale e scientifica è travolta dalla brutalità degli eventi, si ritrova a fronteggiare un’espiazione impossibile e affida quello che gli resta a un cammino che non ha destinazione, e a un dialogo afono o il più delle volte limitato da un pezzo di carta e un mozzicone di matita perché non vuole più parlare: “E le parole? Le parole sono diventate concetti astratti, quasi irriconoscibili, futuro, casa, amore, gioia, come se fossero straniere, come se fossero pronunciate in swahili. Le parole hanno poco significato. A me non servono più”. Ingvar vaga senza meta, assecondando una vita bucolica fatta di nudità e silenzi nella pioggia che Cameron Stewart ritrae con una cura ossessiva dei minuscoli dettagli, di quel poco che gli rimane, delle ferite, del paesaggio incombente che, nonostante la vastità, la natura impervia e il clima estremo, le asperità della strada e degli orizzonti, lascia intravedere altre presenze e capita anche quando Ingvar si avventura in antichi sentieri che “spesso conducevano a una sorgente o a un buon posto per accamparsi, e quando gli capitava di trovare un mucchio di sassi disposti con cura, o un albero con delle incisioni, lo coglieva la sensazione di non essere completamente solo: di essere comunque, ancora, parte di qualcosa”. È soltanto quello, in mezzo al florilegio di definizioni vegetali e animali, e per Ingvar è sufficiente perché “il tempo trascorreva e lui esisteva. Tutto qui”. Finché, guidato dai ricordi intermittenti che lo conducono verso il terreno dell’infanzia, non si ritrova in una valle e conosce l’anziana Hilda, un’allevatrice rimasta sola dopo il suicidio del marito, Col. I fantasmi del passato sembrano avvicinarli: Ingvar si stabilisce in un capanno, lavora per e con Hilda (compreso l’ingrato compito di raccogliere le zecche), ma non riesce a collocarsi in “un mondo costruito da forme”. È comunque fuori posto con le persone, come se fossero stranieri, ospiti, di passaggio, parte sfuggente del territorio. Qualcuno lo evita o lo aggredisce, altri lo considerano un incontro bizzarro, come la giovane Ginger che vede sull’altra sponda di un ruscello, o Mayor che, con il dono dell’ironia,  spiega che “le seppie hanno tre cuori e il sangue blu ma in confronto a noi sono niente. Siamo le creature più strane di questo cazzo di pianeta”. Nessun dubbio, e per Ingvar, che “vedeva il mondo in silhouette”, la redenzione resta una chimera, inafferrabile come i movimenti notturni di un cane randagio. Le atmosfere sono intense, ed emozionanti, il viaggio è faticoso, e dentro le minuziose apparizioni botaniche, ornitologiche, entomologiche e minerali di cui è costellato Perché i cavalli corrono? diventa via via sempre più chiaro che “l’amore e la speranza non sono che screziature d’oro in una vena di quarzo”. Deve essere proprio così e d’altra parte qualcuno sostiene che “forse la narrativa è solo una prova generale per la vita reale” e va riconosciuto a Cameron Stewart, in questo senso, di aver saputo leggere nel solco di altri autori australiani, tra cui Tim Winton, ma soprattutto Paul Horsfall. In effetti, Perché i cavalli corrono? ha molte affinità con La pietra di paragone: stessa terra, stessa acuta sofferenza, stesso coraggio nell’affrontarli con le armi fragili e complicate delle parole.

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