martedì 28 marzo 2023

August Strindberg

Quando arriva in una piccola e bucolica cittadina svedese l’avvocato Edvard Libotz è “un uomo intelligente, di mente aperta. Già alla lettura di un caso complicato poteva tratteggiarne una prima relazione in tribunale. Sempre riflessivo e sereno, si teneva al sodo e non consentiva mai all’avversario di perdersi in chiacchiere e giri viziosi”. Le sue doti dovrebbero essere una garanzia ed è accolto dall’anfitrione naturale, che è Askanius, l’oste per antonomasia, comprensivo e indulgente, colto e assertivo, capace di condividere con i clienti confidenze e saggezze, e qualche bicchierino di troppo. Eppure, è come se un sasso fosse arrivato all’improvviso al centro di uno stagno immobile da anni. Se in Libotz c’era “anche un desiderio di riconciliazione che lo induceva a sorvolare sui tranelli”, nel posto in cui è finito i conflitti locali portano i segni di una decadenza provinciale dove i peccati non si scontano mai. L’innocenza di Libotz ha qualcosa di ambiguo perché lo porta in continuazione a vivere situazioni imbarazzanti, a partire dal sofferto rapporto con il padre e con il resto della famiglia. Una solitudine asfissiante anche quando s’innamora di Karin, la cameriera di Askanius, eppure, anche se con grande fatica riesce a esternare i suoi sentimenti, con un fidanzamento ufficiale, tutto finisce in una cappa di incomunicabilità, entre tra gli uomini si parla, e fin troppo. Tjärne e Libotz conversano “con fervore, come due naufraghi su un’isola deserta. Di sciocchezze, di niente, solo al fine di udire una voce. Per paura d’inciampare nei tristi trascorsi, evitavano tutto ciò che riguardava le loro persone; facevano i brillanti per non andarsene per la propria strada, in solitudine; si addolcivano quella siesta; mostravano i loro lati più belli e più nobili”. Gli eventi si moltiplicano e le relative dinamiche colpiscono Libotz: con l’ingenuità e i limiti con cui si accompagna, tra due, tre fuochi diversi più che un capro espiatorio, sembra una vittima collaterale ante litteram. Prima si vede “citato in giudizio per diffamazione” dal commissario Sjögren, padre del suo infedele e truffaldino praticante e lì comincia “un processo come molti altri, dove il colpevole attaccava non solo l’innocente ma persino il danneggiato”, con un non raro capovolgimento di ruoli. D’altra parte Askanius abbandona la sua trattoria e apre un ristorante di lusso, di fronte a quello rinomato che esiste già. La scontro con la concorrenza non dura molto: per la legge del contrappasso entrambi vengono superati dal “monopolio”, un’entità misteriosa ma non così irreale, che impone il Grand Hotel, la ferrovia e tutte le pressioni del progresso che Il capro espiatorio lascia uscire dall’ombra per stravolgere le psicologie dei protagonisti. August Strindberg è un cesellatore che, con tocchi raffinati, definisce i personaggi pagina dopo pagina, seguendone l’evoluzione all’interno della storia e, ancora di più, della loro mutevole personalità. Libotz alias Il capro espiatorio è comunque al centro dell’attenzione, ma attorno a lui si sviluppa, come scrive Franco Perrelli che introduce e traduce Strindberg con grande perizia, “un’onesta testimonianza sull’essere uomini”, con la dimensione appurata del classico.

giovedì 16 marzo 2023

J. G. Ballard

Anche in questa antologia di articoli dal titolo altisonante, ma non fuori luogo, Ballard si conferma lucidissimo, puntuale e, il più delle volte, profetico. Spesso si tratta di recensioni di libri o film che usa come trampolino per le sue digressioni che sono sempre acute, sia che si tratti di discutere dei diari di Andy Warhol, delle luci e delle ombre di Edward Hopper, dell’immaginario di Dalì o di Guerre stellari. In Fine millennio: istruzioni per l’uso il rapporto con la fantascienza è una costante che riemerge con regolarità e non soltanto per i trascorsi di Ballard, ma proprio perché la considera esplicitamente “l’ultima forma letteraria prima della morte della parola scritta e del definitivo dominio dell’immagine. La fantascienza è stata una delle poche forme di narrativa moderna che abbia esplicitamente affrontato il tema del cambiamento (dal punto di vista sociale, tecnologico e ambientale), e non c’è dubbio che sia stata la sola narrativa a inventare miti, sogni e utopie sociali”. Ridisegnare “il tempo, lo spazio e l’identità” è forse il collegamento sotterraneo che unisce tutti i saggi qui raccolti anche nell’estrema eterogeneità dei temi, che comprendono anche ritratti di Nancy Reagan e consorte (imperdibili), Einstein e Freud, Walt Disney e la Coca-Cola, scampoli di autobiografia “da Shangai a Shepperton”. Le divagazioni sono in cima all’ordine del giorno perché, come dice Ballard, quasi per scusarsi, “gli scrittori, è ovvio possono far danzare quanti angeli vogliono sulla capocchia di uno spillo, e tirar fuori un intero universo da un guscio di noce o da una sola stanza”. Tra gli esempi a cui si dedica scorrono Francis Scott Fitzgerald, Henry Miller e Williams Burroughs con cui si ritorna, inevitabilmente alla fantascienza ricordando “le sue estrapolazioni, anche le più incredibili, sono sempre messe alla prova in un quadro emotivo o umano di qualche genere”. Da lì si intrecciano le previsioni di Ballard che, già riflettendo sull’incidenza dell’automobile sulle nostre vite, rivelava un raro sguardo capace di andare oltre l’immediato e di prefigurare con decenni di anticipo “la trasformazione della realtà in uno studio televisivo, nel quale potremo interpretare a un tempo il ruolo di pubblico, di produttore e di star”. Facoltà di preveggenza così precise non sono innate o fortuite, anzi, secondo Ballard “ci sono ragioni per credere che la nostra comprensione del futuro sia strettamente associata con le origini della parola, e che la ricostruzione immaginaria degli eventi necessaria per farci riconoscere il passato sia anch’essa legata all’invenzione del linguaggio” e che, di conseguenza, “il futuro fornisce una chiave per il presente migliore di quella che offre il passato”. Fedele alla sua vocazione apocalittica Fine millennio: istruzioni per l’uso trova proprio in quell’intersezione temporale, e nell’imminenza del fatidico 2000, tutta una gamma di valutazioni e così le riassume ad uso e consumo dei posteri: “Un inferno valido è un inferno che contempli una possibilità di redenzione, anche se questa non viene poi attinta, insomma le prigioni di un’architettura della grazia le cui guglie puntino a un paradiso di qualche tipo. Ma gli inferni istituzionali del nostro secolo si arriva con biglietti di sola andata, timbrati Nagasaki e Buchenwald, mondi di orrore terminale ancora più definitivi della tomba”. Non manca anche l’augurio di Ballard, che merita di essere riscoperto e riletto spesso: “Vorrei vedere più idee psicoletterarie, più concetti metabiologici e metachimici, più sistemi temporali individuali, più psicologie e spazi-tempi sintetici, più semimondi cupi come quelli che affiorano nei dipinti degli schizofrenici, insomma una poesia speculativa completa, una fantasia della scienza”. Un futuro tutto da scrivere.

martedì 14 marzo 2023

John Berger

Siamo noi che guardiamo gli animali o sono gli animali che ci guardano? È da questo dilemma che comincia l’indagine di John Berger Sul guardare. C’è un motivo sostanziale nel rapporto uomo e animale e l’atto di guardare lo definisce perché “gli animali entrarono nell’immaginario dell’uomo come messaggeri e come promesse” e a differenza degli animali “l’uomo guarda sempre attraverso la propria ignoranza e la propria paura”. È un punto di partenza insolito, ma non anomalo per addentrarsi tra i principi dell’arte, della pittura, della fotografia e gli effetti dell’osservazione, o meglio del guardare, in generale e in particolare proprio perché “avviene a volte che la visione del singolo riesca a sopravanzare le forme sociali della cultura esistente, ivi compresa la forma sociale dell’arte. Quando ciò avviene, le opere nate da una tale visione vivono in una solitudine storica, oltre che personale”. John Berger riflette sugli artisti primitivi, ovvero outsider come il Postino Cheval che da una pietra costruì un sogno, su Bacon, La Tour, Paul Strand, Walker Evans e per ogni artista ha un modo di vedere e valutazioni che vanno ben oltre gli aspetti estetici. È un’attitudine a confrontarsi con l’opera d’arte che tiene in considerazioni tutte le variabili e vale per la fotografia (“Proprio perché conserva l’immagine di un evento o di una persona, la fotografia è da sempre collegata all’idea di storia”) come per la pittura (“Nessun contorno, nessun vuoto, nessuna asperità nei contorni tradisce un’esitazione nell’intensità della pittura. L’atto del dipingere è inseparabile dalla sofferenza patita. Poiché nessuna parte del corpo sfugge al dolore, la pittura non può in nessun punto cedere in precisione. La causa del dolore è irrilevante, ciò che conta è la fedeltà della pittura. Questa fedeltà nasceva dall’empatia d’amore”) o la scultura, vista attraverso le opere di Rodin o Giacometti, così come per ogni altra espressione visiva fino ad arrivare a Walt Disney. L’attenzione al contesto sociale e geografico è sempre rilevante come è evidente nel capitolo dedicato a Ralph Fasanella i cui dipinti “parlando di alcune lezioni che l’aspetto della città impartiva quasi fossero leggi”. Le affollate geometrie di Fasanella, che rileggono New York secondo una “prospettiva ambulante” (John Berger dixit) ci ricordano che “una città moderna non è solo un luogo; essa è anche, di per sé, molto prima di essere raffigurata in un quadro, una serie di immagini, un circuito di messaggi”. È in quel momento che Sul guardare supera la fenomenologia della critica dell’arte e si rivolge all’elaborazione del vedere in sé, liberandosi dagli schemi di “ciò-che-sta-per-accadere, ciò-che-si-deve-guadagnare svuota ciò-che-è”, e puntualizzando i significati più profondi della percezione dell’immagine. I contorni spaziali delle figure rimandano a coordinate temporali e secondo John Berger “il tempo narrato diventa tempo storico quando è assunto nella memoria sociale e dall’azione sociale. È necessario che il tempo costruito e narrato rispetti il processo della memoria che spera di stimolare”. È un gesto che “implica un atto di redenzione” che è un’intima rivoluzione perché “all’improvviso un’esperienza di osservazione disinteressata si apre e dà vita a una felicità che riconoscete immediatamente come vostra”. Da tenere sempre a portata di mano.

mercoledì 8 marzo 2023

Jon Savage

Il sogno inglese comincia proprio bene con Churchill che sfoggia un taglio di capelli mohicano bello colorato. È un’acconciatura che appare con una certa frequenza nella storia e ogni volta identifica tribù particolarmente turbolente. Lo erano i nativi sulle rive dell’Hudson, così come i paracadutisti della 101ª divisione aviotrasportata, conosciuti come Screaming Eagles che si lanciarono sulla Normandia e resistettero a Bastogne. La cresta è uno dei simboli ricorrenti del punk e dato che Nick Kent, partecipe e transfuga della prima ora, l’avrebbe chiamata “la politica dell’apparenza” pare giusto applicarsi partendo da lì, dallo stile. La vivisezione del punk (e dei Sex Pistols) e operata da Jon Savage è un lavoro oculato che lo colloca all’interno di una realtà, quella della Gran Bretagna, tutta da decifrare (e spesso insondabile), ma che poi è destinato a diventare “simbolo globale della disaffezione giovanile, della ribellione, del puro e semplice problema. Dopotutto, se nulla viene contestato, nulla potrà cambiare”. Il background internazionale attingeva al “mare delle possibilità” di Patti Smith e a buchi di New York dove “il procedimento di riciclaggio dei rifiuti” aveva resuscitato il rock’n’roll attraverso Ramones, Television, Talking Heads e, prima di tutti, New York Dolls. Nell’emergere impetuoso di “una cultura sotterranea con riti incomprensibili per tutti gli adulti”, Jon Savage sa trovare la giusta collocazione per ciascun personaggio coinvolto, in un modo o nell’altro: l’improvvisata sartoria di tagli e graffi di Richard Hell è diventata con Vivienne Westwood e Malcolm McLaren l’idea di vestire di nuovo un mondo decadente, attribuendo alle mille motivazioni del punk quasi “un fine morale”. I Sex Pistols arrivarono come un Frankenstein di contraddizioni: si scontrarono con l’industria discografica eppure la scossero dal torpore a cui si era abituata, più venivano censurati e più diventavano un fenomeno, negavano il futuro e nello stesso tempo lo inventavano perché come disse Joe Strummer, uno che se ne intendeva: “Erano di un altro secolo”. Il sogno inglese, mai titolo è stato più appropriato, rende attuale tutta l’esperienza dei Sex Pistols e, per estensione, del punk, inteso come “uno stile di vita devoto e appassionato che ignorasse le convenzioni ortodosse, rispettando allo stesso tempo un rigido codice di comportamento”. È più la storia di una mutazione, che di una rivoluzione: assecondando i principi di azione e reazione secondo Jon Savage “gli stili pop divennero simboli di branco e tribù, dunque non qualcosa da esibire per una stagione, bensì un modo di vivere, un mezzo per costruirsi un’identità fuori da una struttura di classe sovente immobile e spietata”. Le vicende dei Sex Pistols, narrate come struttura portante del Sogno inglese, avvolgono e si intersecano con quelle dei Clash (“Il punk definito per sempre come realismo sociale”), delle Slits, degli Adverts, dei Buzzcocks, dei Jam, tra i paesaggi ballardiani di Londra e Manchester dove Jon Savage ricorda che “chi fa spettacolo è interessante solo in funzione delle emozioni che provoca, o delle situazioni che catalizza: è il pubblico a conferirgli il potere che ha”. La placida assuefazione al pub, alla BBC e alla monarchia venne travolta: “il punk annunciò se stesso come un presagio” e si rivelò una sferzata tale che lo “scarto culturale” ha assunto le dimensioni di una vera e propria faglia all’interno della cosiddetta civiltà occidentale. È stato possibile solo perché, come ha detto uno dei protagonisti, Jamie Reid: “il punk era verità dissimulata dall’inganno”. Per spiegare il suo paradosso, Il sogno inglese (per l’occasione ampliato, aggiornato e arricchito rispetto alla prima edizione del 1991) ci mette settecento pagine che, da Sid Vicious a Paul Virilio, dalle rivolte alle clausole contrattuali, da Bob Marley alla Thatcher, non nascondono nulla e danno al punk il posto che si merita, in mezzo alla strada, da qualche parte, ovunque ci sia bisogno di una bella scossa.