martedì 12 dicembre 2023

J. G. Ballard

Siamo del 2030 (non manca molto) e l’America è stata evacuata un secolo prima in seguito alla crisi climatica ed energetica che l’ha travolta. Una missione partita dall’Europa su un veliero, l’Apollo, per verificare le condizioni del continente è attirata dal luccichio sulla East Coast. Quando sbarcano, l’oro visto sulla costa si rivela un miraggio di sabbia e ruggine, e, a una prima ricognizione, “non ci sono indigeni, né traccia di radioattività nel raggio di cento miglia” e il rischio “più grande è di sbattere contro un’auto parcheggiata”. La statua della libertà è affondata. New York è travolta da un’arida distesa di nulla. Anche se non hanno ancora trovato conferma, almeno nelle dimensioni apocalittiche di Hello America, le previsioni di Ballard restano come campanelli d’allarme che qualcosa non sia andato per il verso giusto, a partire dall’ipotesi della desertificazione. Per l’equipaggio dell’Apollo, come per i pellegrini del Mayflower a suo tempo non resta che il “movimento, ecco cos’era l’America, che esprimeva, la sua fiducia in se stessa”, e siamo soltanto all’inizio. È un viaggio verso l’interno, come redivivi pionieri lungo file interminabili di rottami (frutto del collasso di una società basata sulle auto e sul traffico) e incontrando frazioni di un popolo semianalfabeta che ha preso il nome di prodotti e di insegne. Tutto intorno sono rimasti cactus, yucca, artemisia e dune che si perdono oltre l’orizzonte. Da bere è rimasto soltanto l’alcol abbandonato nei centri commerciali e l’idea degli Stati Uniti in polvere e delle istituzioni svuotate va inquadrata nel periodo dell’apparizione di Hello America, nel 1981, all’apogeo della guerra fredda quando i progetti di vettori nucleari sempre più distruttivi partirono per la tangente come succede un po’ a tutti in questo romanzo. Tra missili Titan e Cruise, elicotteri senza pilota (che anticipavano gli attuali droni), alianti di cristallo e macchine a vapore in uno scenario in costante mutazione, Hello America è abbastanza caotico, con una sequenza finale degna di un film d’azione di terza categoria. Detto questo, Ballard allinea una lunghissima teoria di miti che vanno a comporre un quadro fluttuante e irriverente di “un’America impazzita”. L’equipaggio dell’Apollo si divide, si scontra (il capitano, Steiner, sparisce), subisce perdite, ma decide di arrivare a Washington e da lì in un susseguirsi di incontri, cominciano a pensare che “determinate cose andavano fatte, riti di passaggio in preparazione della loro effettiva partenza”. L’imperativo è guadagnare terreno, e tutti concordando, chiedendosi: “Sì, ma verso dove?”. La domanda è pleonastica, la direzione è ancora a ovest dove, al contrario, è tutto una giungla ed è soltanto una prima, palese contraddizione. Il trambusto cresce per gradi, riserva una sorpresa dopo l’altra e le varie compagnie di sbandati, altrettanti cliché sociali irrisi da Ballard, si presentano in forme picaresche. Arrivata a Las Vegas, la composita spedizione scopre che l’autoproclamato presidente degli Stati Uniti è Charles Manson e sta giocando con una roulette nucleare che segnerà i destini delle città americane. Tra proiezioni, ologrammi e robot con le sembianze di Frank Sinatra, Dean Martin, Judy Garland, Bing Crosby e dei precedenti presidenti, Hello America si via via ingarbugliando, anche se alcune immagini risaltano, nel delirio generale, più di altre. Nella parodia complessiva, un po’ fumetto, un po’ serie di sogni (come direbbe Bob Dylan, citato fin dall’inizio), la metafora viene svelata quando Ballard scrive che “servono gli orpelli del potere inerenti al potere stesso per legittimarlo” e non c’è dubbio che Hello America nella sua folle lucidità sappia cogliere il valore ultimo delle immagini, a partire (e per concludere) con John Wayne che “a noi può parere una barzelletta, invece è il cuore di tutto quanto”, ed è davvero così. Ma più di tutto dovrebbe far riflettere il fatto che l’altro Wayne, il protagonista di Hello America, è un clandestino che nella terra della libertà e nella patria dei coraggiosi si ritrova in mezzo a una specie di guerra civile con l’ennesimo dottor Stranamore pronto con il dito sul bottone.

martedì 5 dicembre 2023

Gustave Flaubert

In Io sono Charlotte Simmons Tom Wolfe descrive così l’impressione della sua tormentata protagonista nel corso di una delle sue prime lezioni universitarie: “Gustave Flaubert era uno scrittore molto diretto e lineare, ma usava un sacco di frasi elaborate, espressioni colloquiali e citava una serie di oggetti che lei doveva cercare sul dizionario, dato che Flaubert dava molta importanza ai dettagli”. Poco più avanti, il suo docente di letteratura francese, il professor Lewin precisa: “Flaubert, più che spiegare un punto chiave, voleva farlo vedere. E per mostrarlo aveva bisogno di un punto di vista”. È una circostanza che va tenuta ben presente quando si affronta La tentazione di Antonio (nella traduzione e con l’esaustiva introduzione di Bruno Nacci) che ripercorre, secondo la particolarissima interpretazione di Flaubert, il romitaggio di sant’Antonio. Nelle pieghe del deserto della Tebaide, l’anacoreta passa in rassegna tutte le divinità, si confronta con miti ed eremiti, con la materia e il sogno, l’immaginazione e la fede, e si ritrova in allucinazioni dove i peccati capitali, gola e lussuria prima di tutti prendono forma. Le descrizioni sono abbondanti e spumeggianti: “I vini ruscellano, i pesci palpitano, il sangue ribolle nei piatti, la polpa dei frutti si protende come labbra innamorate; e la tavola sale fino al suo petto, fino al mento, portando un solo piatto e un solo pane, proprio davanti alla sua faccia”. Alle libagioni patrizie, si contrappone il destino atroce della persecuzione dei martiri cristiani. Il contrasto è possente e Flaubert non manca di farlo notare: “Ma in breve è sazio di eccessi e stermini; lo prende la voglia di rotolarsi nell’abiezione. D’altra parte, il degrado di ciò che spaventa gli uomini è un oltraggio fatto al loro spirito, un modo diverso di stupirli; e poiché non c’è niente di più vile di una bestia bruta, Antonio si mette a quattro zampe sulla tavola e muggisce come un toro”. L’eccesso linguistico è all’ordine del giorno e il pellegrinaggio di Antonio è una colossale panoramica mitologica e cosmologica che si snoda come una tempesta sulle rive del Mar Rosso. Secondo Ilarione, già suo discepolo e il più loquace tra le apparizioni, “forse non è così difficile. Le esortazioni degli amici, il piacere d’insultare il popolo, il giuramento fatto, una certa vertigine, soccorrono mille circostanze”, ma per il santo le lusinghe sono una tortura e il conflitto si propaga in tutte le direzioni. Ilarione è assillante nello spingerlo ai limiti (“Ma fuori dal dogma, ci è permessa una completa libertà di ricerca”) e Antonio si rivela un viandante che caracolla nello spazio e nel tempo (ci vuole il raffinato glossario in appendice per districarsi nelle sue visioni) finché Flaubert non gli fa chiedere: “Cos’è un miracolo? Un avvenimento che ci appare fuori dalla natura. Ma forse che noi conosciamo tutta la sua potenza? E dal fatto che normalmente una cosa non ci stupisce, ne segue che la capiamo?”, e il dilemma diventa l’occasione per sfoggiare un florilegio erudito capace di collassare le culture classiche, greca e latina, in un’acrobazia teologica senza fine. L’accavallarsi di estasi e dispute (che spesso coincidono) è mostrato da Flaubert proprio attraverso la prospettiva di Antonio (ecco, il “punto di vista” di cui parlava Tom Wolfe) che, nella sua santità, ha l’enorme pregio di restare umano in mezzo a tanto travaglio divino e demoniaco. Dice, tra l’altro: “Il mio pensiero si dibatte per uscire dalla sua prigione. Mi sembra che mettendo insieme le mie forze ci riuscirò. A volte, nello spazio di un lampo, mi trovo come sospeso; poi torno a cadere”. La raffigurazione fluttua irriverente e cangiante ben sapendo che “quando il cuore è puro l’apostasia è permessa” e La tentazione di sant’Antonio ammette che l’insidia più grande non arriva dall’alto dei cieli o dal profondo degli inferi, ma da un angolo remoto del nostro essere.

lunedì 4 dicembre 2023

Mia Couto

Serpenti, uccelli, uomini e donne in cerca di un amore che non c’è, alberi, fiumi e intersezioni tra esseri senzienti e il resto della natura, una principessa russe e Sidney Poitier: nelle Voci all’imbrunire di Mia Couto si sommano simbologie e mitologie, la dimensione del sogno e della stregoneria, i bianchi e i neri, l’imperialismo e le ribellioni, le invocazioni e le carestie, il Mozambico e l’Africa intera. I contrasti sono ridotti in una scrittura volitiva, che riesce a contenere le vestigia coloniali e animiste, le “mura” urbane e la vita nelle lande rurali e desertiche, addensandole in storie che partono “da qualche cosa accaduta nella realtà”, ma come “se fosse successa all’altro capo del mondo”. I racconti hanno svolte e risvolti sorprendenti a partire da Il giorno in cui esplose Mabata-Bata, che comincia con un bue che si disintegra nell’aria. Il giovane pastore Azarias destinato dal protervo zio Raul a custodirlo rimane senza parole: “Fissò la disgrazia: il bue polverizzato, eco di silenzio, ombra di nulla”. In quel momento Azarias pensa a un fulmine o a un intervento divino, per poi scoprire che il povero animale è saltato su una mina. Le condizioni del Mozambico si evidenziano nei racconti di Mia Couto dove la realtà della guerra si somma alla magia e alla durezza della vita quotidiana: “Ciò che più duole, nella miseria, è l’ignoranza che essa ha di se stessa. Messi di fronte all’assenza di tutto, gli uomini si astengono dal sogno disarmandosi del desiderio di essere altri. Esiste nel nulla un’illusione di pienezza che fa fermare la vita e imbrunisce le voci”. C’è un continuo andirivieni nei dilemmi dei personaggi di Mia Couto perché “il dolore è polvere che ci annebbia la luce” e la rivoluzione non riesce nemmeno a prendersi cura dei sopravvissuti come si può vedere in La storia dei comparsi, dove la burocrazia e la corruzione trasformano le persone in creature invisibili. Le reazioni sono tra le più disparate. Per esempio, il personaggio principale di Le balene del Quissico, “unico abitante della tempesta, Bento João Mussavele si addentrava nel mare, si addentrava nel sogno”, prova ad accontentarsi e “se ne stava lì a sedere e basta. Nient’altro. Proprio così, sedutissimo. Il tempo non se la prendeva con lui. Lasciava fare”. Il protagonista di Alla fin fine, Carlota Gentina invece recita nell’incipit: “Io siamo tristi. Non sto sbagliando, dico bene. O forse: noi sono triste? Perché dentro di me non sono solo. Sono molti. E tutti questi si contendono la mia unica vita. Avremo le nostre morti. Ma il parto fu uno solo. Eccolo, il problema. Per questo quando racconto la mia storia mescolo, mulatto non di razze ma di esistenze”. Potrebbe essere l’identità dello stesso Mia Couto che altrove confessa: “Ho bisogno di essere un altro per essere me stesso”, e riesce a raccontare il dolore dell’illusione con La bambina dal futuro contorto, un racconto straziante, con il padre che, di fatto, tortura la figlia nella speranza di trasformarla in contorsionista, mentre “il tempo si riempie di nulla” e ogni sforzo è legato a una notizia che vaga nell’aria: “Ma in una terra così piccola è avvenimento soltanto ciò che viene da fuori. La cosa di cui si parla non è mai un fatto locale. Viene sempre da fuori, scuote le anime, incendia il tempo e poi si ritira. Se ne va così in fretta da non lasciare neppure braci con cui gli indigeni possano riaccendere quel fuoco, neanche se lo vogliono. Il mondo ha dei posti in cui la sua millenaria rotazione si ferma e riposa. Quello era uno di quei posti”. Lo sa anche Patanhoca, il serpentaio appassionato quando dice che racconterà come a prendere forma non sia “proprio la storia”, ma “pezzetti di storia. Pezzetti sbrecciati come le nostre vite. Riuniamo i frammenti, ma il mosaico non è mai completo”. E nelle Voci all’imbrunire si ritrova anche Mia Couto quando ammette che “nel tessuto della vita intreccio la lotta in cui divengo” e nel percorso si fa affascinante e coinvolgente.