sabato 29 febbraio 2020

John Berger

La Festa di nozze di Gino e Ninon è “un’occasione straordinaria per ritessere una fitta rete di relazioni e di biografie” e si celebra a Gorino sul delta del Po perché “in questa valle dove l’orizzonte non nasconde niente, aspettano i momenti in cui la vita conta qualcosa. Quando poi arrivano, questi momenti, passano in fretta. Dopo, niente è più uguale a prima e si mettono un’altra volta ad aspettare. Spesso qui il tempo è come il tempo degli atleti che passano mesi e anni in attesa di una prova che dura meno di un minuto”. Gino è un topo di fiume, Ninon si porta dietro una famiglia (la madre, Zdena, e il padre, Jean Ferrero) dispersa per l’Europa e, insieme, si ritrovano in un luogo ideale, dove “la gente cerca il bello perché gli ricorda vagamente il bene. Questo è l’unico motivo per cui esiste l’estetica. Ci ricorda qualcosa che non c’è più”. La loro discesa lungo il solco e attraverso le valli, si sovrappone all’intenso lavorio di John Berger, un processo singolare che l’ha sorpreso, prima di tutti: “Quando ci si spinge tanto lontani da sé e si osa andare così a ridosso della storia di un altro essere umano, può essere difficile trovare una strada per tornare indietro. Mentre scrivevo Festa di nozze, per esempio, mi sono chiesto più volte se ero in grado di proseguire. Mi sono accorto che potevo e dovevo. Che cos’ho riportato indietro con me in quel caso? È troppo presto per dirlo. Speranza e dignità certo, ma è pericoloso semplificare”. Viaggiando verso la Festa di nozze ci si inoltra in “un vortice di emozioni”, come ha scritto Michael Ondaatje, che John Berger ha saputo tradurre in un caos di parole da leggere in filigrana. Ogni passaggio ha un senso specifico, anche se, in apparenza, non ha connessioni dirette con quello che lo segue o che lo precede, ma persino i nomi celano piccoli e grandi motivi, a partire da quelli di Gino e Ninon, che si incastrano uno nell’altro. Nelle pieghe del loro amore si nasconde un’infida trappola che gli invitati alla Festa di nozze, lettori compresi, conoscono e giustamente temono, ma, quasi assecondando le generose intuizioni di John Berger, la collocano in una dimensione dove non può fare danni. Almeno per il momento: lo spirito del convivio, e di conseguenza del romanzo in sé, sembra essere una concreta meraviglia che si evolve dalla consapevolezza che  “viviamo tutti in mezzo a cose incredibili” e con un po’ di coraggio “vivremo questi anni con un pizzico di follia, con furbizia e filosofia”. Potrebbero bastare: proprio come il fiume che costeggia dall’inizio alla fine, il racconto di Festa di nozze trasporta voci sparse e le riunisce in un’unica corrente che scorre disordinata e impetuosa nell’imporre all’attenzione una storia d’amore che nasconde una dolorosa piega del destino. A prima vista, la logica è casuale perché “si raccoglie una cosa di qua, una di là, ci si sveglia con un’idea, d’improvviso ci viene in mente che è tanto che non proviamo più una cosa, si va a casa e si mette la spesa in frigorifero. Ogni giorno si va avanti così”. A maggior ragione, dato che la precaria condizione di Ninon (e Gino) non consente alcuna certezza, ma John Berger trova un’armonia, e forse anche un equilibrio, nella consapevolezza che “possiamo farcela, senza neanche menzionare la felicità”. Non vale soltanto per i protagonisti di Festa di nozze

lunedì 24 febbraio 2020

Bruce Chatwin

Attraverso Le vie dei canti, la mente nomade e irrequieta di Bruce Chatwin, trova una sua definitiva collocazione, accolta quasi come una benedizione quando dice che “di notte, mentre vegliavo sotto le stelle, le città dell’occidente mi parevano tristi e aliene, e le pretese del mondo dell’arte assolutamente idiote. Qui invece avevo la sensazione di essere tornato a casa”. Il distacco si rende necessario perché, nelle profondità dell’emisfero australe, il viaggio e il romanzo che lo racconta si evolvono in un’epifania che sorprende Bruce Chatwin con “l’impressione di un uomo che in quel mondo segreto era entrato dalla porta di servizio; che aveva visto la costruzione mentale più sorprendente e intricata del mondo, una costruzione che faceva apparire le conquiste materiali dell’umanità come altrettante quisquilie, ma che, in qualche modo, non si lasciava descrivere”. Ogni odissea ha un punto di partenza e Le vie dei canti prendono forma da quei miti aborigeni che “narrano di leggendarie creature totemiche che nel tempo del sogno avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano, uccelli, animali, piante, rocce, pozzi, e col loro canto avevano fatto esistere il mondo”. Il sottile e profondo legame etimologico tra la creazione e la designazione riflette l’impellente necessità di dare un nome alle “cose”, di riconoscere un territorio, di identificare l’inizio e la fine. All’origine, il potere del canto è inestimabile perché erano proprio “i canti, non gli oggetti, il principale strumento di scambio. Il baratto degli oggetti è la conseguenza secondaria del baratto dei canti”. Un canto “faceva contemporaneamente da mappa e da antenna. A patto di conoscerlo, sapevi sempre trovare la strada”, e seguendo Le vie dei canti, Bruce Chatwin scopre che gli uomini “dovevano imparare a vivere senza gli oggetti. Gli oggetti riempivano gli uomini di timore: più oggetti possedevano più avevano da temere. Gli oggetti avevano la specialità di impiantarsi nell’anima, per poi dire all’anima cosa fare”. Da lì, il suo walkabout lo porta a considerare altre prospettive, che riflettono in misura maggiore condizioni reali, piuttosto che leggende ancestrali. La distanza globale serve a Bruce Chatwin per vedere che “quasi tutti noi, che eroi non siamo, nella vita perdiamo il nostro tempo, agiamo a sproposito e alla fine siamo vittime dei nostri vari disordini emotivi”, così come riesce a maturare la convinzione che “la selezione naturale ci ha foggiati, dalla struttura delle cellule cerebrali alla struttura dell’alluce, per una vita di viaggi stagionali a piedi in una torrida distesa di rovi o di deserto”. A quel punto Le vie dei canti impongono un’accelerazione nel processo di identificazione tra l’uomo, gli antenati e i sentieri che hanno tracciato cantando, fusi in un solo destino. Al viaggiatore alias Bruce Chatwin, che “aveva capito il nesso fra il canto e la terra e voleva trovare nel canto, andandosene alle radici, la chiave per svelare i misteri della condizione umana”, resta la sensazione di essersi consumato in “un’impresa impossibile”, e senza alcun ringraziamento. Nello stesso modo, le voci primitive della creazione “avvolsero il mondo intero in una rete di canto; e infine, quando ebbero cantato la terra, si sentirono stanchi. Di nuovo sentirono nelle membra la gelida immobilità dei secoli. Alcuni sprofondarono nel terreno, lì dov’erano. Altri strisciarono dentro le grotte. Altri ancora tornarono alle loro dimore eterne, ai pozzi ancestrali che li avevano generati. Tutti tornarono dentro”. Alla fine, Le vie dei canti appartengono al regno dell’invisibilità che Bruce Chatwin ha inseguito con la magia di uno sguardo curioso, insaziabile, forse ingenuo, ma unico e originale, destinato a restare nel tempo come un classico.  

giovedì 13 febbraio 2020

Mirt Komel

Un incidente, una nota imprevedibile sullo spartito della vita, e l’enigmatico Gabriel Goldman, si ritrova in un letto “paziente senza una malattia conosciuta, pianista senza il suo pianoforte, criminale senza aver commesso alcun crimine, condannato senza verdetto, prigioniero senza motivo, a ogni ora del giorno fremeva dal desiderio di libertà, di varcare le mura dell’istituto in cui per volontaria costrizione era murato vivo”. Alla gamma delle incognite, così come sono ben presto annunciate da Mirt Komel, va aggiunta vertiginosa natura dello scenario che le accoglie, a suo modo un altro abbaglio perché  “New York non è un vero melting pot, come va di moda definirla, nessuno si fonde con gli altri. Ognuno galleggia nel minestrone bollente in un settore separato assieme ai suoi simili: carote con carote, patate con patate, finocchio con finocchio. Inoltre in ogni gruppo ci si aiuta gli uni con gli altri (analogamente, nello stesso tipo di verdure l’una contribuisce a rendere riconoscibile il sapore dell’altra e viceversa) e lo fa a metà prezzo o gratis, quindi il lavoro svolto o non vale nulla o, nel migliore dei casi, vale la metà”. In quel momento, come direbbe Borges “la città è quasi una pianta delle mie umiliazioni e di sconfitte” e a Gabriel Goldman, visto il carattere sfuggente e vorticoso di New York, che rimane un approdo di esuli e migranti, non resta che la musica per ripristinare un minimo sindacale di ordine nei flashback che lo assalgono. Nel delicato rapporto tra equilibrio e udito, e qui Il tocco del pianista mette la musica in un posto d’onore, Gabriel Goldman si rende conto che “un’allucinazione uditiva per l’ascoltatore non solo è realistica, ma anche assolutamente ideale, perché comunque deriva dal mondo delle idee”. È quello in cui è costretto a dibattersi, cercando di afferrare “piccolezze, dettagli impercettibili” che compongono l’essenza di una personalità e della sua espressione. Ma “la realtà rovescia i pensieri” e corsi e ricorsi filosofici non bastano a tracciare un ordine, così Gabriel Goldman si ritrova sospeso tra un vuoto e i tentativi di riempirlo, sapendo che comunque “alla fin fine, ogni viaggio è un viaggio in qualche altro mondo, e chi viaggia deve almeno in parte estraniarsi, tanto di più quanto più lontano viaggia, dalla sua vita precedente e da sé medesimo, per potersi poi ritrovare”. Resta la musica, Beethoven e Chopin i nomi che ricorrono con maggiore frequenza, che è nello stesso tempo domanda e risposta, il pianoforte qualcosa in più di uno strumento, quasi un mezzo per decodificare un intero alfabeto emotivo, tutto quello che la parola può solo descrivere, e con grande fatica. Il labirintico ed erudito romanzo di Mirt Komel  gioca con una leggerezza che sarebbe piaciuta a Calvino ed è una lucida riflessione in chiave narrativa sulla composizione dell’identità e su quanto incida la materia fluttuante dei ricordi. Diceva Nabokov in una delle interviste raccolte in Intransigenze: “Il passato è un continuo accumularsi di immagini, ma il nostro cervello non è un organo ideale per una retrospezione continua, e il massimo che possiamo fare è cogliere e cercare di trattenere quelle chiazze di luce iridata che sfrecciano attraverso la memoria”. È proprio quello che prova a fare Gabriel Goldman sfiorando il pianoforte in cerca delle prime note imparate da un maestro fuggito dalla Russia, del brusio di Hell’s Kitchen, e di un amore disperso, come se la musica, più che il pensiero o la scrittura, fosse l’unica rete di salvezza.

mercoledì 12 febbraio 2020

Max Hastings

Nessuna altra guerra, come quella combattuta in Vietnam, ha permeato la cultura occidentale, filtrando in continuazione e senza sosta attraverso il cinema, la letteratura e persino la musica, come un vaso di Pandora che erutta senza sosta storie ed eroi, atrocità e misteri, gloria e infamia. Il motivo di questa invasione va cercato nella monumentale ricerca di Max Hastings che segue tutta l’evoluzione dei conflitti, i riflessi politici, sociali e culturali a partire dal fatto che “nell’ultima fase la guerra entrò a forza nell’immaginario collettivo” costituiscono.La ricostruzione storica segue un percorso cronologico coerente, da cui Max Hastings non si scosta neanche per sbaglio. Non c’è nulla di inedito, ma è un ottimo quadro d’insieme e  la densità delle informazioni dirette o indirette (tratte dai libri di Tim O’Brien, Neil Sheenan, Bao Ninh, Karl Marlantes) contribuisce a un’elaborazione serrata, che paga però un prezzo, in termini di analisi, a una presunta equidistanza tra le parti in conflitto. Un equilibrio necessario, ma non dovuto perché come dice Philip Caputo in una delle citazioni di Max Hastings: “Tutto andava male e si corrompeva laggiù: i corpi, il cuoio degli stivali, la stoffa, il metallo, i principi morali”. Il quadro è quello e per la cornice, senza dubbio, Max Hastings svolge un enorme lavoro di raccordo, mantenendosi in equilibrio tra le diverse posizioni e tra le valutazioni geopolitiche e quelle più legate alle eventualità quotidiane. Il lavoro è nello stesso tempo imponente e riepilogativo. Un trattato dettagliatissimo, ricco di testimonianze raccolte in prima persona e organizzate secondo uno schema ben preciso: Una tragedia epica è senza dubbio una definizione consistente, con una sua logica stringente. Ne esce una panoramica sicuramente esaustiva (sono quasi mille pagine) di trent’anni di eventi bellici che Max Hastings sa raccontare con uno stile fluido, preciso e avvincente, a tratti affascinante come un romanzo. Molta attenzione è dedicata, come non poteva essere diversamente, allo svolgimento dei combattimenti e alla vita (e alla morte) delle truppe sul terreno, tenendo presente anche le diverse caratteristiche delle armi e delle strutture industriali nella loro produzione a monte, valga su tutte la minuziosa descrizione della differenza tra i due principali fucili usati nei combattimenti, l’M16 e l’AK-47. Nello stesso modo, la cronaca puntigliosa dell’offensiva del Têt è davvero coinvolgente, per come Max Hastings sa fondere le valutazioni tattiche e strategiche con l’esperienza nelle strade e nei combattimenti, fino all’apoteosi della battaglia per Hue, dove venne coniata la frase: “È necessario distruggere la città per salvarla”. La fonte di quell’asserzione non è né chiara né confermata, ma in sé è il paradigma di tutta la guerra nel Vietnam. C’è anche un altro lato della storia perché, come scrive Max Hastings nell’introduzione, “molti dei racconti sotto riportati ritraggono crudeltà e follie, ma all’interno del grande affresco furono tante le singole persone, vietnamite e americane, di tutte le età e di entrambi i sessi, militari e civili, che si comportarono come si deve. Ho cercato di raccontare le vicende di queste persone, perché è sbagliato lasciare che la condotta virtuosa svanisca nel calderone delle bombe, le brutalità e i tradimenti da cui trae alimento la maggior parte delle cronache della guerra”. Si tratta di una componente notevole del lavoro di Max Hastings che, dove si addentra nei risvolti più profondi dell’esperienza bellica, è la parte più originale. Nel momento in cui conclude che “è difficile regolare a puntino il comportamento di giovani in possesso di armi letali che, come la maggior parte dei soldati la maggior parte del tempo, hanno caldo o freddo, sono sporchi, hanno fame, soffrono di costipazione o di diarrea, hanno sete, sono soli, stanchi, ignoranti, mantengono i nervi saldi o hanno il grilletto facile, perché solo così possono sperare anche loro di rimanere vivi”, esprime, attraverso il Vietnam, una verità che vale per ogni guerra, e più di ogni statistica. I dati non mancano perché Max Hastings sa che i segreti della storia vanno cercati negli atti e quel rigore rende l’analisi del Vietnam sicuramente affidabile e meritevole. Qualche eccezione conferma la regola generale, senza intaccarne comunque la validità complessiva. A tratti, Max Hastings si astiene su alcune delle questioni più scottanti, tralasciando anche particolari rilevanti. Su tutte, sull’opzione dell’utilizzo degli ordigni nucleari si limita a ricordare la discussione all’interno dei comandi militari e dell’entourage presidenziale, come se fosse un’ipotesi generica e riservata, mentre, come è noto, stava diventando una soluzione richiesta ad alta voce, in pubblico, anche da un senatore d’alto rango come Strom Thurmond. Ma, sembra suggerire lo stesso Max Hastings, forse è sufficiente ricordare che è stata solo un’ipotesi persino innocua, di fronte gli orrori di trent’anni di guerra.