giovedì 28 febbraio 2019

Jean Baudrillard

Lo storico intervento di Jean Baudrillard partiva dalla concezione che “l’arte è prima di tutto un trompe-l’œil, un inganno della vista e un inganno della vita, così come ogni teoria è un inganno del senso”. Baudrillard è stato lucidissimo nell’affrontare la cultura predominante e debordante delle immagini, dello schermo, della superficie e del suo riflesso, una dittatura della forma fine a se stessa, schivando i tracciati filosofici e critici. La sua ammirazione, a tratti entusiasta, per Andy Warhol (“Credo che Andy Warhol sia stato l’unico artista, in un momento in cui l’arte si è trovata coinvolta in un movimento di transizione molto importante, ad aver saputo anticipare i mutamenti”) ha dei caratteri paradossali. Andy Warhol incarna più di tutti e in modo geniale, va detto, l’aspetto meccanico dell’arte, e della sua riproduzione, in scala e in catena di montaggio, eppure Baudrillard vede proprio in lui l’essenza del “complotto” che ha portato “a riappropriarsi in modo più o meno ludico, più o meno kitsch, di tutte le forme e le opere del passato, vicino o lontano, o addirittura già contemporaneo”. Il deus ex machina della Factory è andato oltre e Jean Baudrillard gli riserva parole ammirate, anche all’interno di un contesto molto critico: “Warhol ci offre l’illusione pura della tecnica, la tecnica come illusione radicale, di gran lunga superiore, oggi, a quella della pittura. In questo senso, persino una macchina può diventare famosa, e Warhol ha sempre aspirato solo a questa celebrità macchinale, senza conseguenze e che non lascia traccia”. Resta da capire cosa è stata e cosa è diventata l’arte e qui in aiuto arriva Sylvère Lotringer, a spiegare come “proclamare inesistente l’arte contemporanea non era per Baudrillard un giudizio estetico ma un problema antropologico. Un gesto polemico rivolto alla cultura nel suo insieme, che oggi è simultaneamente tutto e niente, elitaria e insieme volgarmente materialista, ingegnosa, scaltra, astuta, pretenziosa e penosa per dirla tutta, a dispetto del suo soddisfatto affannarsi”. L’elemento provocatorio è implicito, anche se Baudrillard sente il dovere di approfondirlo: “Quando parlo di complotto dell’arte uso una metafora, come quando parlo del delitto perfetto. Non si possono indicare gli istigatori del complotto più di quanto si possano individuare le vittime. Giacché il complotto non ha un autore e tutti sono al tempo stesso vittime e complici. La stessa cosa avviene in politica: siamo tutti abbindolati e tutti complici del tipo di messinscena, per esempio. Una sorta di non-credenza, di non-investimento fa sì che tutti facciano un doppio gioco in una specie di circolarità infinita”. La produzione di Andy Warhol sembra fatta apposta per concentrare le attenzioni di Jean Baudrillard: “Tutti questi artefatti, tutti questi oggetti e queste immagini artificiali esercitano su di noi una forma di fascinazione, di radiosità artificiale; i simulacri non sono più simulacri, tornano a essere di un’evidenza materiale, feticci, forse, al tempo stesso completamente spersonalizzati, desimbolizzati, e tuttavia di massima intensità, investiti direttamente come medium, come è l’oggetto feticcio, senza mediazione estetica”. Il complotto dell’arte serve a leggere oltre i valori estetici perché “uno sceneggiatore geniale (forse il capitale stesso) ha trascinato il mondo in una fantasmagoria di cui siamo tutti vittime affascinate”. In questo senso è più logico parlare di quella che, nell’intervista a Catherine Francblin, viene chiamata La commedia dell’arte e in cui Baudrillard trova il modo di precisare che “non esiste più un imperativo critico, questo mi sembra essere l’unico potenziale di opposizione possibile, un altro complotto, ma enigmatico, indecifrabile”. Le iperboli di Baudrillard superano Il complotto dell’arte (“Quello che oggi chiamiamo arte sembra testimoniare un vuoto irrimediabile. L’arte è mascherata da idea, l’idea è mascherata da arte”), scrutano negli schermi grandi (“Il cinema attuale non conosce più né l’allusione né l’illusione: passa da una sequenza all’altra in un modo ipertecnico, iperefficace, ipervisibile. Non c’è bianco, non c’è vuoto, non c’è ellissi, non ci sono silenzi, proprio come alla televisione, con la quale il cinema sempre più si confonde perdendo la specificità delle sue immagini; andiamo sempre più verso l’alta definizione, cioè verso la perfezione inutile dell’immagine”) e piccoli (“Ogni cosa, prima del suo segreto e della sua illusione, è condannata all’esistenza, all’apparenza visibile, è condannata alla pubblicità, al far credere, al far vedere, al far valere. Il mondo moderno è, nella sua essenza, pubblicitario”), graffiandone la fredda, effimera superficie (“L’immagine non può più immaginare il reale perché essa stessa è il reale, non può più trascenderlo, trasfigurarlo, sognarlo, perché ne è la realtà virtuale. Nella realtà virtuale è come se le cose avessero ingoiato il loro specchio”). Una concezione che Baudrillard vive al di là dei ruoli e delle specifiche competenze, ammettendo di giocare “volutamente il ruolo di uno che sembra ingenuo e scandalizza per la sua franchezza, di uno che non sa ma fiuta qualcosa”. L’intuizione fondamentale è che “viviamo in un mondo di simulazione, in un mondo in cui la funzione più alta del segno è quella di far sparire la realtà e mascherare in pari tempo questa sparizione” e perché Il complotto dell’arte si manifesti “bisogna che ogni immagine tolga qualcosa alla realtà del mondo, che in ogni immagine qualcosa sparisca, ma senza cedere alla tentazione dell’annientamento, dell’entropia definitiva, bisogna che la sparizione resti viva, è questo il segreto dell’arte e della seduzione”. Andy Warhol aveva capito tutto.

Derek Raymond

Derek Raymond è un narratore che ha capito il vero potere del noir, ovvero quello di essere il romanzo più vicino alla realtà e alla società in cui viviamo, pur con la coscienza di sfiorare soltanto una superficie come ammette il suo personaggio preferito, il sergente della A14 (sezione casi irrisolti): “Mi rendo conto che facciamo parte di una storia molto più grande di noi, e che ci sembra senza senso solo perché non siamo che gli ultimi fili dell’ordito. Di noi non resta che questa immagine incerta e consunta; il nostro orgoglio è stato male interpretato e si è dissolto; il terreno più fertile non è stato messo a frutto”. Ne è la riprova Come vivono i morti: il sergente della Factory, lascia Londra per una missione in periferia, dove lo attende un’accoglienza che è un misto di abulia e indifferenza. Non che si attendesse un granché, comunque, visto che la sua condizione è tale che è arrivato a pensare: “Il mio lavoro mi dice che la nostra storia è finita, che il nostro tempo è scaduto. So che ci si aspetta che nel mio lavoro rappresenti un futuro, ma mi sembra impossibile quando mi giro a guardare il passato”. La riflessione si adegua alla perfezione alle indagini che deve affrontare: una donna bella, colta, stimata è sparita da sei mesi senza lasciare traccia. Non è proprio un caso di omicidio (la sua specialità) e nemmeno un rapimento: somiglia di più ad uno di quei rebus insolvibili che fanno proprio per lui. E infatti è così: dietro la sua scomparsa si celano dolore, amore, follia, ma anche un crudele, rozzo e cinico giro d’affari. Macabri e torbidi: di più non si può svelare, ma bisogna aggiungere che Come vivono i morti racconta la provincia inglese (che poi è un po’ uguale ovunque) con il coraggio di andare oltre la solita descrizione un po’ eccentrica, pettegola, comunque evanescente. Nelle mani di Derek Raymond diventa un posto pericoloso, come qualsiasi bassofondo, e forse di più, perché rivela un’innata tendenza a nascondere tutto sotto il tappeto, nelle cantine o in giardino, dietro le apparenze di una normale tranquillità. Un territorio più subdolo tale che il sergente della A14 arriva a una conclusione disarmante: “Mi sembrava che tutti non avessimo fatto altro che errori, con cui adesso ci toccava convivere. Sarebbe stato meglio essere stupidi, o addirittura pazzi. Il vero tormento è la capacità di comprendere; forse saremmo più onesti senza la conoscenza”. Non conoscendo altri strumenti per uscire dall’impasse ricorre a metodi poco ortodossi, ma sperimentati più volte sul campo: lavora da solo, litiga con i superiori (qui li prende persino a pugni), si ritrova sotto inchiesta, ma arriva fino in fondo. E quello che scopre non è bello per nessuno, per quanto sia stimolante (e spaventoso) per i lettori, perché “le storie vere non sono mai piacevoli”. Senza dubbio Derek Raymond sa renderle convincenti, non a caso nelle nelle convulse fasi finali di Come vivono i morti si legge: “La realtà va messa in discussione, non accettata. La materia è come una tenda opaca che si tira per far luce o far buio. Siamo attraversati da schegge di invisibile piene di errori”. Derek Raymond lo fa dire a un pazzo, però sono parole molto, molto vicine alla verità, di sicuro adatte alle meditazioni del sergente della Factory quando si accorge che “così di colpo, era tutto finito, e mi resi conto un’altra volta di come tutto sia molto più complicato e serio di quanto ci immaginiamo, non che ne avessi mai dubitato”. Nerissimo, e ineccepibile.

mercoledì 27 febbraio 2019

James Campbell

Questa è la Beat Generation: una forma di letteratura che pochi hanno affrontato perché ha bisogno, nell’ordine, di una vita intera spesa a proposito, di tanta benzina (reale e metaforica) e di un qualche additivo che bisogna essere capaci di sopportare, più della fatica e dello sforzo della scrittura. È quello che emerge dall’analisi storica che James Campbell conduce in modo molto discorsivo, senza lasciarsi trascinare né dagli eventi né dagli entusiasmi e guardando ai protagonisti della Beat Generation con attenzione e lucidità, ma anche con un grande rispetto. È una storia che scorre, senza fare troppa confusione e non si tratta della solita celebrazione, magari un po’ nostalgica, dei bei tempi che furono: la Beat Generation che ruota essenzialmente attorno a Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Williams Burroughs è riportata tenendo sempre ben presente l’importante definizione di John Clellon Holmes, ovvero “un uomo è beat ogni volta che rischia il tutto per tutto”. Per cui Jack Kerouac che torna a casa dalla mamma, William Burroughs e i suoi fantasmi, Allen Ginsberg e la sua elaborata psicologia, pur essendo elementi a cui James Campbell dedica un’attenzione di riguardo, restano sullo sfondo, di contorno. I nodi centrali di Questa è la Beat Generation rimangono, come sempre, i sogni e le illusioni, le teorie folli e sincere, le ambizioni spropositate. Jack Kerouac, per esempio, quando diceva: “Ho voglia di scrivere un romanzo gigantesco su tutto”, oppure il vademecum di Neal Cassady: “Ho sempre sostenuto che quando uno scrive dovrebbe dimenticare tutte le regole, gli stili letterari e altre vanità come parole lunghe, le frasi altisonanti... Penso che uno debba piuttosto scrivere il più possibile come se fosse il primo uomo del mondo e stesse umilmente e sinceramente mettendo su carta quello che ha visto e sperimentato e amato e perduto, quali erano i pensieri passeggeri e le sue pene e i suoi desideri”. Qui dentro c’è tutto il senso della Beat Generation, che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, non ha perso nulla della sua carica emotiva, e ha fatto del suo fallimento la più grande vittoria. Resta validissima la descrizione Michael McClure: “Una voce umana e un corpo erano stati scagliati contro il duro muro dell’America e dei suoi eserciti di alleati e di marina e accademie e istituzioni e sistemi di proprietà e le basi che sostengono il suo potere”. Gli snodi essenziali sono tutti presenti, anche se James Campbell si tiene a distanza di sicurezza dall’approfondire i temi portanti e/o dall’analisi critica. Il racconto dei momenti vitali, per quanto semplificato, è esaustivo, con qualche ripescaggio degno di nota come la rivisitazione del ruolo di Mezz Mezzrow, il ricordo della seminale rivista Neurotica (“Ci interessa esplorare la creatività di quest’uomo che è stato costretto a vivere in clandestinità”) e poi via via la City Lights, Tangeri e il Pasto nudo, il Beat Hotel, Ginsberg e Urlo,  il “rotolo” di Kerouac, i legami e i contrasti con la musica e la letteratura afroamericana. Il ruolo del jazz è riportato con dovizia di particolari (come è giusto che sia) perché, come spiega molto bene John Clellon Holmes, gli amici della Beat Generation ci vedevano “qualcosa di ribelle e senza nome che parlava a nome loro, e le loro vite per la prima volta conobbero un vangelo. Era più di una musica: diventò un atteggiamento verso la vita, un modo di camminare, un costume”. I riferimenti letterari non mancano: dalle epigrafi in omaggio ai poeti francesi al tributo di Emerson a Whitman (luglio 1855: “Mi congratulo per l’inizio di una lunga carriera, che deve essere destinata a una duratura posizione di preminenza, se il suo inizio è così promettente”) e la sua parafrasi in quello di Ferlinghetti a Ginsberg nell’ottobre 1955 (“Mi congratulo per l’inizio di una lunga carriera. Quando mi mandi il manoscritto?”) James Campbell è prodigo di suggestioni. La più importante resta quella dedicata a Jack Kerouac e al mare nell’incipit di Questa è la Beat Generation, anche perché riporta ancora alle quattro costanti della letteratura dell’America “eterna ed essenziale” secondo Harold Bloom: mare, madre, morte, notte. Non sarà difficile ritrovarle Sulla strada, un viaggio che puntava soprattutto verso nuove dimensioni mentali, piuttosto che in cerca di destini topografici, come ha capito per tempo Henry Miller, che ha detto: “La nostra meta non è mai stata un luogo, piuttosto un nuovo modo di vedere le cose”. Come corollario a Questa è la Beat Generation, che resta un ottimo strumento introduttivo, è consigliabile anche il bellissimo The Beat Book di Anne Waldman. È un’antologia curatissima, con una prefazione di Allen Ginsberg che sembra la spiegazione finale di cosa è stata la Beat Generation: “Credo che le generazioni più giovani siano attratte dall’esuberanza, dall'ottimismo libertario, dallo humor erotico, dalla franchezza, energia continua, invenzione e amicizia collaborativa di quei poeti e cantanti, da Burroughs a Bob Dylan fino ai giovani Beck o Geoffrey Manaugh. Avevamo un gran lavoro da fare, e lo facciamo, cercando di salvare e guarire lo spirito d’America”. Questa è la Beat Generation ed  è così che altri ragazzi (di ogni età) scopriranno ancora e ancora le follie e i sogni di questi stravaganti poeta convinti che si potesse scrivere come Charlie Parker suona il sassofono e che si potesse vivere come Walt Whitman scriveva in Foglie d’erba

domenica 24 febbraio 2019

Robert Louis Stevenson

Qualsiasi libro che vi dice cosa dovete fare o cosa non dovete fare con la scrittura va usato per quello che è, ovvero carta sprecata. La scrittura è un’arte talmente libera, personale e complessa che ognuno deve goderne e/o soffrirne a seconda delle proprie inclinazioni e seguendo la propria identità. Certo, la formazione dipende da mille variabili, non ultima quella dell’altra metà della scrittura, la lettura, a cui questi cinque saggi, ben raccolti da Francesca Frigerio e con un’utilissima postfazione di Clotilde De Stasio, ritornano con frequenza regolare. “Il dono della lettura”, come l’ha chiamato Stevenson, “non è cosa comune né viene sempre compreso nel modo giusto. Consiste, in primo luogo, in un grandissimo attributo dell’intelletto, una sorta di grazia libera, lo definirei, grazie alla quale un uomo si rende conto di non aver mai ragione fino in fondo e che le persone le cui opinioni differiscono dalle sue non hanno mai del tutto torto”. È su questa granitica base, la lettura prima di tutto, che un grande narratore come Stevenson dissemina poi con generosità dozzine di suggerimenti, di idee, di proposte, forse persino di regole su come affrontare la scrittura. Una vera e propria panoplia che comprende l’essenza della trama (“L’intreccio, dunque, o disegno d’insieme: un intreccio che sia al tempo stesso d’immediata percezione e di grande rigore logico, un tessuto elegante e ricco di significato: questo è lo stile, questo è il fondamento dell’arte letteraria”), dell’ambientazione (“L’autore deve conoscere il suo paese, reale o immaginario che sia, come il palmo della sua mano, le distanze, i punti della bussola, dove sorge il sole, le fasi della luna, tutto dev’essere preciso fino al dettaglio più minuto”), del ritmo (“In letteratura, ogni frase è costruita con i suoni, così come, in musica, ogni frase consiste di note. Un suono suggerisce l’altro, lo rieccheggia, lo evoca, si armonizza con lui e l’abilità di usare correttamente queste concordanze fonetiche è la vera abilità di chi fa letteratura”) e della precisione (“Esiste un unico modo per narrare qualcosa, qualsiasi cosa, con abilità, ed esso consiste nell’essere precisi”). La bellezza di questa raccolta di saggi è che le lezioni di Stevenson possono essere interpretate come attrezzi per consolidare l’arte della lettura, usandole come una mappa per orientarsi tra temi incompiuti e verità dette in modo non pertinente, tra voci afone e pagine imperfette, in cerca di quella sintesi che fa uno stile, visto che “delle opere d’arte, però, si può dire poco a parole: la loro influenza è profonda e silenziosa, come quella della natura; ci modellano con un semplice tocco, ci abbeveriamo ad esse come una fonte e ne veniamo ristorati, senza capire come”. Indagare un po’ serve, e parecchio, soprattutto quando si parla di letteratura perché come scrive Stevenson in una breve e limpida apologia della lettura, “i libri che esercitano l’influenza più grande, e più vera, sono quelli di narrativa. Non vincolano il lettore a un dogma, che in seguito potrebbe rivelarsi inaccurato né pretendono di impartirgli una lezione, della quale poi bisogna dimenticarsi. Essi non fanno che ripetere, riformulare, chiarire le lezioni della vita; ci svincolano dalla compagnia esclusiva del nostro io, ci obbligano a far conoscenza con altre persone e ci mostrano, non nel modo in cui potremmo vederla da soli, ma con un notevole slittamento di prospettiva, un’intera rete di esperienze, e quell’ego mostruoso, divorante, che è il nostro essere, viene, per una volta, messo in disparte”. Indiscutibile. Diffidate dai manuali per aspiranti scrittori. Quello che c’è da sapere, sulla lettura e sulla scrittura, è tutto qui.

giovedì 21 febbraio 2019

Frederic Manning

L’esperienza del “soldato semplice 19022” nasce con l’arruolamento, nel 1914, per arrivare a scoprire che “c’è una forza straordinaria nella guerra, una forza che spoglia l’uomo di ogni sua copertura convenzionale, lasciandolo inesorabilmente nudo come la realtà che deve affrontare”. La cruda consistenza di questa definizione fornisce l’essenziale DNA  su cui si sviluppa Fino all’ultimo uomo: è un diario puntiglioso che Frederic Manning compila nelle trincee della Somme, un girone dantesco dove, osservando i suoi commilitoni, non può esimersi di notare “la semplicità con cui questi uomini consideravano la vita conferiva loro una certa dignità. Quelle nature apparentemente brutali e rozze si confortavano e si incoraggiavano a vicenda, riconciliandosi con il destino, mostrando una tenerezza e un tatto davvero commoventi. Non possedevano nulla, nemmeno il proprio corpo, diventato un semplice strumento di guerra”. Gli ingranaggi militari hanno  qualcosa  di perverso, ancora prima della furia e del terrore dei combattimenti e Frederic Manning non manca di notarlo: “L’organizzazione dell’esercito dovrebbe funzionare con la precisione impersonale e spietata di una macchina, ma questa azione non è singola né indivisibile, e il fattore umano finisce sempre per inserirvisi, cosicché talvolta quello che dovrebbe essere l’inesorabile funzionamento della macchina assume il carattere di un duello tra opposte personalità; mentre l’azione meccanica, avendo raggiunto il suo scopo, si esaurisce, l’altra dura più a lungo. In quella monotona routine di impegni e doveri, che sembrava rendere la guerra una faccenda sordida e ottusa, si aveva la sensazione di un pericolo incombente, sensazione che era acuiti dagli sforzi per vincerla. Gli uomini che lottavano uniti, in continuo pericolo di vita, esigevano almeno che i rischi fossero equamente divisi. Potevano essere generosi e accettare ulteriori sacrifici senza lamentarsi, se erano effettivamente necessari, ma nei momenti di amarezza sembrava loro che il dovere e l’onore fossero semplicemente il pretesto per privarli dei più elementari diritti. Infatti, anche quando trasportavano materiale o erano impegnati nella normale routine della vita di trincea in settori relativamente tranquilli, gli uomini potevano essere uccisi in modo casuale e indiscriminato”. In quella quotidiana anticamera della morte, tutto è possibile, anche un’incredibile distinzione tra gli stessi soldati perché “quando si appartiene alla truppa, si vive in un mondo di uomini, pieno di imprevisti e di interessi umani; al contrario, quando si diventa ufficiali, si è parte di una macchina inflessibile e inumana e anche se pensava che la guerra, come sforzo morale, fosse magnifica, sentiva che come operazione concreta lasciava molto a desiderare”. Fino all’ultimo uomo non è una lettura agevole, perché Frederic Manning non concede tregua, è ossessionato dai dettagli della vita al fronte, e brutale nel riportarli in tutta la loro inconsistente follia, valga su tutti la descrizione dell’appello: “Se uno si presenta, allora dobbiamo presentarci tutti. E farlo non ha alcun senso, a meno che ci spediscano in prima linea con tutta la compagnia. Comunque, queste maledette esercitazioni non servono a niente. Un branco di pezzi grossi elabora i piani più complicati e invia istruzioni a tutti gli interessati. Al che gli ufficiali sono tenuti a esaminare una mappa della posizione da attaccare: a quel punto tocca a noi essere presi per i fondelli e portati su un finto campo di battaglia, segnato per miglia e miglia con linee che vorrebbero indicare le trincee. Quando poi tutto è fatto, e si pensa che ciascuno sappia esattamente come deve comportarsi, l’operazione viene annullata e noi andiamo in prima linea senza sapere un cazzo di quello che dovremo fare”. Nonostante ciò, Fino all’ultimo uomo riesce ad andare oltre la paura, il dolore, la fame, il fango, le malattie e gli incubi, ed è dove Frederic Manning si avvede che “in realtà, sebbene la pressione delle circostanze esterne sembrasse cancellare ogni traccia di individualità, dentro di sé ciascuno era ben consapevole di ciò che era. Del resto, se non si poteva essere certi di se stessi, non si poteva essere certi di nulla. Il problema che tutti dovevano affrontare in ugual misura, sebbene alcuni fossero restii o incapaci di definirlo, non riguardava tanto la morte, quanto l’affermazione della loro volontà di sopravvivere”. Molto grezzo, ma altrettanto sincero. 

martedì 12 febbraio 2019

Hanif Kureishi

Karim Amir è un ragazzo, figlio della piccola borghesia della periferia meridionale di Londra. Una vita che trascorre lenta, tra un padre impiegato parastatale improvvisatosi buddista e una madre delusa e quasi abulica, più tutto un viavai di amicizie e parentele sulle quali è imperniata gran parte della struttura narrativa. Per Karim si tratta quindi di organizzare la sua stagione di amori e di muovere i primi passi verso il mondo nella promiscuità sociale e sessuale dei sobborghi londinesi. Parecchi e stravaganti i personaggi che Karim troverà sul suo cammino, a partire da Eva, intraprendente libera pensatrice che va a vivere con suo padre, Changez, martio in un matrimonio imposto, che, rifiutato dalla moglie se la spassa con una prostituta orientale, e Charlie archetipo della rockstar con il quale Karim comincia a godere delle prime iniziazioni sessuali, uomini o donne che siano, perché a suo personale giudizio “sentivo che non avrei potuto scegliere senza che mi si spezzasse il cuore, come dover scegliere tra i Beatles e i Rolling Stones”. Lo spostamento dell’azione nella City accelera i tempi di reazione nei rapporti con Karim che, una volta abbandonati gli studi, si dedicherà a traffici teatrali alternativi (prima con una rielaborazione de Il libro della giungla, citazione certamente non causale, e poi con una rappresentazione di teatro d’avanguardia) lasciandosi trasportare in un mondo in cui soldi, droga e artisti viaggiano alla stessa (elevate) velocità moltiplicando e complicando le relazioni fino al sintomatico annuncio del matrimonio tra Eva e il Budda delle periferie. Non è una trama bene definita ma piuttosto un intreccio di rapporti, a volte puramente fisici, spesso più complessi, comunque sempre coinvolgenti che permettono a Hanif Kureishi (che, va ricordato, è stato sceneggiatore di My Beautiful Laundrette e Sammy e Rosie vannno a letto) di proseguire la sua ricerca antropologica portando alla luce tutta una progenie di outsider fatta di immigrati pakistani, inglesi delusi, skinhead e teppisti, attori underground e militanti comunisti, in un’Inghilterra che (la Thatcher doveva ancora emergere dall’inferno) sperava tempi migliori. E, dopo tanti personaggi sotto le zero, Il Budda delle periferie ha il pregio di far conoscere un autore, o un uomo, che non ha esitazioni né timori a dichiarare che “nulla di ciò che è umano mi era estraneo”, sporcandosi le mani nei negozi che gli immigrati pakistani mettono in piedi lavorandoci di notte dopo una giornata passata in ufficio, nei cottage di periferia così come nei grattacieli di New York. Con lui, qualcuno che, nonostante la confusione, sentimentale ed esistenziale, ha qualche prospettiva in più dalla vita che non conteggiare scopate e misurare le quotidiane dosi. Non è, come si potrebbe pensare, un’osservazione distaccata o magari, visti i precedenti, colta con occhio cinematografico: Hanif Kureishi utilizza un linguaggio semplice e diretto, denso di immagini che condensano ne Il Budda delle periferie le misere aspettative e le folli speranze di una gioventù sbandata, priva di ideali ma non per questo senza identità. Una scrittura dal ritmo spigliato, con una sottile patina di ironia che non può non ricordare le liriche di Elvis Costello. E infatti Il Budda delle periferie è un libro importante perché fotografa con ricchezza di colori il momento di passaggio tra due ere musicali, siamo sul finire degli anni sessanta, che dalla atmosfere psichedeliche e sognanti di Dylan di Positively Four Street, dei Soft Machine, della Third Ear Band (per i figli) e dallo swing di Glenn Miller, Count Basie e Louis Armstrong (per madri e padri) passa bruscamente alla carica ritmica e verbale dei Clash, degli Adverts e dei Pretenders. Anche in questo l’esaltazione della necessità del cambiamento (dall’adolescenza alla gioventù, dalla periferia al centro, dalle prolissità psichedeliche alla violenta sintesi del punk), come gusto per lo sconosciuto e come spirito d’avventura rendeva Il Budda delle periferie atipico per i tempi, così come per oggi.

J. G. Ballard

C’è sempre una frontiera, ma non è il mito americano, è piuttosto un limite nello spazio e nel tempo che J. G. Ballard sembra essere capace di superare con una concezione della narrativa e della letteratura per niente consolatoria, tagliente, coraggiosa, inquietante. Super-Cannes è un romanzo scomodo perché ci presenta un futuro molto vicino, dove i margini, o i confini, che definiscono legalità moralità e civiltà non sono molto chiari. Anzi. Paul Sinclair e la giovane moglie Jane, assunta in qualità di medico di Eden-Olympia, lo spazio esclusivo sulla Costa Azzurra dove è ambientato Super-Cannes, si devono confrontare con il fantasma ingombrante di David Greenwood, medico a sua volta che, pare in preda a un raptus di follia, ha compiuto una strage. Dieci persone uccise a fucilate sono più che sufficienti ad indurre Paul Sinclair a sollevare non pochi dubbi sulla vera, preoccupante natura di Eden-Olympia. Super-Cannes si snoda così come un thriller ad altissimo profilo psicologico dove J. G. Ballard può allineare ideali frammenti di Crash, di La mostra delle atrocità o del Condominio, tutte storie che portano a scoprire la disgregazione di un’umanità per cui, annota lo scrittore inglese in modo beffardo e lucidissimo, “fare shopping è l’ultimo rituale popolare che può aiutare a costituire una comunità, assieme agli ingorghi stradali e alle code in aeroporto”. La noia mortale è una spada di Damocle sulla civiltà occidentale e in Super-Cannes e la conclusione di Ballard appare oggi ancora più puntuale di vent’anni fa: “Il pericolo si abbatterà su di noi puntandoci il coltello alla gola. Guarda al secolo che abbiamo davanti... Un deserto soffice come un cuscino di piuma, ma pur sempre una terra desolata. Nessuna fede, se si esclude un vago credo in una divinità sconosciuta, come lo sponsor di una trasmissione di servizio. Ovunque ci sia una vuoto, si insinua il tipo di politica sbagliato”. Di conseguenza, le “cocaine nights” di Eden-Olympia si trasformano in soluzioni terapeutiche per gli executive, i manager e gli amministratori delegati che popolano Super-Cannes: la pornografia, le violenze sugli immigrati, le rapine a mano armata, gli incidenti stradali hanno un retroterra pauroso che Paul Sinclair scoprirà rimanendone logicamente invischiato fino alla fine. “La Costa Azzurra è un posto di duri”, e se lo sapevamo già attraverso l’epopea indimenticabile di Francis e Zelda Fitzgerald e, non di meno, con quella tossica e decadente dei Rolling Stones di Exile On Main Street, in Super-Cannes, Ballard riesce a offrirgli in più una patina di tecnologia e di soluzioni avveniristiche che la rendono davvero una sorta di terra di nessuno tra l’adesso e il domani. È chiarissimo, nel bel mezzo del romanzo, quando uno dei personaggi più ambigui e sfuggenti recita: “I fisici possono dire quello che vogliono, ma qui il tempo scorre in una direzione sola, a precipizio nel futuro. Senza guardarsi indietro, e questo lo sanno quasi tutti”. Pochi, però, sanno raccontarlo come Ballard ed è questo, più dell’incombenza delle ombre di Super-Cannes, a doverci preoccupare.

lunedì 11 febbraio 2019

Sylvie Simmons

È curioso che a occuparsi di questa solida biografia di Leonard Cohen sia una casa editrice rinomata piuttosto per la scacchistica. E’ solo in piccola parte una coincidenza. La sua vita è stata una partita a scacchi con l’avversario più imprevedibile, preparato, temibile e geniale: se stesso. Una ricerca caotica, disordinata e per nulla consolatoria o elegante come vorrebbe chi sta cercando di costruirgli attorno un monumento o una sorta di sacralità. Leonard Cohen è un personaggio contraddittorio e controverso, estremo persino, nonostante le apparenze, i Borsalini e i gessati e i modi zen. Un essere umano, troppo umano, conflittuale e problematico, come tanti e più di altri, con l’aggravante delle deviazioni artistiche e di una particolarissima sensibilità. Se non altro, la biografia di Sylvie Simmons (una reporter abituata ai casi complessi visto che ha seguito da vicino anche il crepuscolo di Johnny Cash) non nasconde la polvere sotto il tappeto. Va molto vicino, più di tanti altri, a comprendere la sovrapposizione tra arte e vita nella storia di Leonard Cohen, che è stata tutta meno che indolore e grazie a un linguaggio forbito e scorrevole, a una fitta segnalazione di informazioni (anche scomode) e a una serie di inquadrature che scrutano il personaggio in gran parte delle sue declinazioni. Il rapporto con la scrittura, dall’ambizione dei romanzi alla natura più immediata delle canzoni, i legami intimi con le droghe e con le religioni e infine la ricostruzione dei rapporti discografici, dall’intervento di John Hammond alle recenti celebrazioni. Anche nel caso specifico, Sylvie Simmons non cede alle lusinghe dell’agiografia e riporta pareri dissonanti. Quello di Walter Yetnikoff, per esempio, che gli disse in modo piuttosto brutale: “Leonard (Cohen), sappiamo che sei grande, ma non sappiamo se ci servi a qualcosa”. L’episodio è significativo perché Walter Yetnikoff è uno che per lunghissimi anni ha avuto in mano il destino della Columbia Records e che poi si è scoperto, (una volta andato in pensione, qualche anno fa e per sua stessa ammissione) alcolizzato e cocainomane disse. Piccola parentesi, per gli appassionati di industria discografica, il personaggio è molto interessante perché secondo la versione politically correct di Dave Marsh la prima volta che Walter Yetnikoff sentì Nebraska si commosse al punto da rievocare i suoi ricordi d’infanzia. Secondo un’altra versione, una volta riavvolto il nastro di Nebraska (Nebraska), schiacciò il sigaro nel posacenere e poi disse a Springsteen e a Jon Landau, seduti davanti a lui: “Vedremo cosa si può fare”. Per fortuna Sylvie Simmons si ricorda con una certa frequenza che Leonard Cohen non sarebbe stato Leonard Cohen se non avesse incontrato la musica e lo sfavillante pianeta del rock’n’roll e dedica il giusto spazio a raccontare la realizzazione dei dischi, ai rapporti con i musicisti e in particolare alla natura del songwriting di Leonard Cohen che cerca di spiegare così: “In genere trovo che la canzone nasca suonando la chitarra, semplicemente giocherellando con la chitarra. Davvero, basta provare diverse sequenze di accordi, tipo suonare la chitarra e cantare tutti i giorni fino a quando non mi ritrovo a piangere, al che smetto. Non è che pianga a dirotto; sneto semplicemente una lieve morsa alla gola o qualcosa del genere. Allora so di essere in contatto con qualcosa che è un po’ più profondo rispetto al punto in cui sono partito e ho preso in mano la chitarra”. Oltre agli anni ruggenti, Sylvie Simmons segue Leonard Cohen fino a oggi, senza esclusioni di colpi (c’è anche gran parte della sanguinosa diatriba che l’ha opposto a Kelly Lynch, già amante, manager e factotum che gli ha dilapidato tutto il patrimonio, una roba di svariati milioni di dollari) e concede ampi sprazzi della sua poesia che in fondo si racchiude in questa dedica ad Anjani, la sua più recente musa: “Penso sempre una canzone, da far cantare ad Anjani, sarà sulle nostre vite insieme, sarà molto leggera o molto profonda, ma nulla che non sia l’una o l’altra, io scriverò le parole, e lei scriverà la melodia, io non potrò cantarla, perché salirà troppo, lei la canterà splendidamente, e io correggerò il suo canto, e lei correggerà la mia scrittura, finché non sarà più che splendida, poi la ascolteremo, non spesso, non sempre insieme, ma di tanto in tanto, per il resto delle nostre vite”. Sostituite il nome di Anjani con una delle tante donne amate, immaginate, create, inseguite da Leonard Cohen e avrete un bel riassunto lirico della sua biografia. La si può ottenere anche parafrasando quello che lui stesso scriveva per Beautiful Losers perché la sua vita, almeno come l’ha ricostruitia Sylvie Simmons, è stata “una storia d’amore, un salmo, una messa nera, un monumento, un satira, una preghiera, un grido, una mappa di luoghi sconfinati, uno scherzo, un affronto di cattivo gusto, un’allucinazione, una noia, un irrilevante sfoggio di virtuosismo malato. In breve, una sgradevole epopea religiosa di incomparabile bellezza”. Non poteva starci tutto, va da sé, e ne viene fuori uno strano mondo di monaci e avvocati, pubblici ministeri e chitarristi, donne (un’infinità di donne), poeti e scrittori, Judy Collins e Nico, il Chelsea Hotel e Idra, tutti i luoghi che ha celebrato in un modo o nell’altro nei suoi passaggi vitali, nel suo obliquo muoversi da un’identità nascosta a se stesso, e viceversa. Poteva essere Bob Dylan, o Allen Ginsberg. Poteva diventare Philip Roth. Ha deciso di essere Leonard Cohen.

sabato 9 febbraio 2019

Hugues Pagan

Gli elementi tipici del classico noir ci sono tutti: la notte, la femme fatale, una quantità appropriata di fucili e pistole, Parigi, molto mistero, qualche segreto indicibile, e poi gli omaggi espliciti (Jim Nisbet, Georges Simenon, Cornell Woolrich) e impliciti (Jim Thompson, James Crumley, Charles Willeford) che echeggiano attorno a Chess, l’uomo dall’anima ferita che si incontra anche negli altri romanzi di Hugues Pagan, Dead End Blues e Quelli che restano. Il suo passato, con la guerra d’Algeria sullo sfondo, non gli concede tregua, i fantasmi si presentano puntualmente agli appuntamenti e lo vanno a trovare nei sogni o, meglio, negli incubi e lui gira per le strade della notte parigina come se cercasse di sfuggirgli. È un baltringue, uno zingaro, un vagabondo e, quando decide di fermarsi, intravede una fine, se non una morte, perché “puoi correre a lungo. Ma un bel giorno ti devi fermare. Sei sicuro di esserti lasciato tutto alle spalle, con i tuoi tormenti, le pene, tutto il ciarpame. Vorresti riposare un po’. A forza di correre, di sopravvivere a forza di espedienti, hai perso solo quel tempo troppo breve che ti separava dalla morte. Il tempo, e quel poco d’interesse per te stesso, quel briciolo di talento che ti rendeva l’esistenza più o meno sopportabile”. Gli fanno compagnia Thelonious Monk, Count Basie, Miles Davis, Leroy Carr, Mildred Bailey, Rory Gallaghe, Lonnie Johnson , Johnny Cash via Folsom Prison Blues con Carl Perkins e naturalmente Billie Holiday che lo accompagna da sempre, nelle sue peregrinazioni nel nulla fino a quando, in una notte come tante, gli appare Alex. La dark lady di turno nasconde qualcosa, forse tutto, e per un poliziotto sarebbe compromettente soltanto conoscerla. Chess se ne innamora (ricambiato alla grande) pur sapendo che “i nostri affetti, per brevi e limitati che siano, recano ogni volta il marchio di una vigliaccheria infinita. Nient’altro che scaramucce di retroguardia. Solo il timore del silenzio e quello della tomba le rendono più o meno comprensibili e talvolta scusabili. E il tempo, a sua volta, non ci lascia altra scelta che la routine o il lutto”. Le riflessioni, spesso dispensate negli incipit dei singoli capitoli, riportano il carattere tormentato e “blue” di Chess che nell’introspezione scopre come “è il nostro stesso dolore, in fondo, che meglio ci protegge dalla trappole e dalle tentazioni della vita, dalle nostre vigliacche aspirazioni alla felicità, dalla nostra triste e irragionevole voglia di sopravvivenza. E il sopravvivere, peraltro, è solo una questione fisica; l’anima si è già ritirata da un bel pezzo, è scesa in punta di piedi giù per lo stretto cammino dell’esistenza, si è persa per la troppa sofferenza, la troppa amarezza, soprattutto per la troppa lucidità. E per la tristezza. Niente è più triste di un’anima smarrita”. Il suo spleen, che spesso e volentieri risolve passando il tempo con armi, pistole e fucili di ogni calibro e dimensione, si sviluppa alla fragile love story con Alex e a un complesso intrigo, foriero di ricordi e di suggestioni, compresa l’attenzione verso gli intrecci mai chiari dei servizi segreti e della politica. Ci sono elementi a sufficienza perché La notte che ho lasciato Alex sia la degna conclusione della notevole trilogia che comprende Dead End Blues e Quelli che restano. Oltre tutto, Hugues Pagan è un bluesman che conosce la materia perché “un sacco di blues traboccano di treni e di uomini o donne ches torneranno mai più. È un discorso che vale anche per molte esistenze”. O per i suoi romanzi, dove anche un ritorno, un happy end, può significare l’esatto contrario.

venerdì 8 febbraio 2019

Barry Miles

Brion Gysin, pittore e libero pensatore che ebbe un’influenza non relativa su William Burroughs disse, una volta: “Considero la vita una collaborazione fortuita attribuibile al trovarsi nel posto giusto al momento giusto”. Non c’è dubbio che, tra il 1957 e il 1962 il luogo ideale fosse il numero 9 di rue Git-Le-Coeur, nel cuore del Quartiere Latino di Parigi, sede del fantasmagorico Beat Hotel. In quegli anni, il via vai dei sognatori della Beat Generation, Allen Ginsberg in testa, aveva eletto una piccola, malandata e pittoresca locanda a propria sede elettiva e da lì aveva cominciato a spedire le sue variopinte illuminazioni al mondo intero. Il Beat Hotel fu la base di lancio, giusto per citarne un paio, del Pasto nudo di William Burroughs e della Bomba di Gregory Corso, la famosa poesia a forma di fungo atomico, ma è stato anche il crocevia in cui la rivisitazione della musica popolare e tradizionale di Ramblin’ Jack Elliott incontrò la poesia della Beat Generation, prima di approdare tutti insieme a New York e scoprire con Bob Dylan che il complesso intreccio si era già compiuto. Con una ricostruzione meticolosa, ma anche con una prosa molto scorrevole Barry Miles riproduce tutto lo strambo calendario e l’altrettanto disordinata routine del Beat Hotel, compresi legami e umori, fatiche ed economie (sempre del tutto improbabili), screzi e follie, esperimenti poetici, trattative editoriali e improvvise illuminazioni, compresa la scoperta del cut-up, raccontata in un’ennesima versione e con un’altra prospettiva. Per dirla con Gregory Corso, la vita al Beat Hotel “è quel che è ed è ciò che sta succedendo, e fanculo”. Tutto rigorosamente scandito dagli eccessi libertini che Parigi elargiva con generosità: “In genere la droga veniva consegnata al destinatario a domicilio nell’albergo, ma si poteva anche reperire con facilità nei caffè algerini e marocchini vicino a rue Sain-Sèverin e alla Palette. Il meraviglioso mercato di bancarelle di rue de Buci distava solo qualche minuto, e in rue de la Huchette era possibile fare la spesa fino a tardissimo. C’era un posto chiamato Ali Baba dove chi alloggiava all’albergo poteva comprare da mangiare fino alle due di notte, se voleva cenare tardi; la frutta esposta sul marciapiedi era coperta da una rete che la proteggeva dai ladri di passaggio. A molti dei residenti dell’hotel quella zona sembrava il paradiso”. Sembrerà strano, ma l’unico a non aver visitato e/o vissuto il Beat Hotel è stato Jack Kerouac, e quindi, a distanza e con una certa obiettività, riassunse così lo stile di vita dominante: “Conveniamo tutti che è troppo per potervi tener testa, che siamo circondati dalla vita, che non la capiremo mai e così risolviamo tutto quanto tracannando whisky dalla bottiglia e quando la bottiglia è vuota io mi precipito giù dalla macchina e ne compro un’altra, punto”. In fondo alla sua prospettiva, s’intravede, speculare, quella di Marchel Duchamp che degli ospiti del Beat Hotel seppe dire: “Mi piacciono questi beat. Sono sbronzi marci ma sono infantili, meravigliosi. Sono certo che sono grandi poeti”. Barry Miles non perde per strada un particolare che sia uno, anche se il più bello, forse per discrezione, lo lascia intuire: a differenza di molti altri luoghi storici della letteratura e del rock’n’roll, nel Beat Hotel non morì nessuno e divenne famoso invece per la vitalità (per quanto sregolata) dei suoi abitanti. Non a caso, Il Beat Hotel chiuse i battenti un attimo dopo che se ne furono andati tutti (Brion Gysin per ultimo) nella primavera del 1963 quando ormai, come scriveva William Burroughs, avevano imparato a “tradurre parole e lettere in colori”. L’omaggio resta doveroso: a furia di poesia, quei pazzi sapevano trasformare in mito ogni angolo scalcinato, compreso il mondo disgraziato in cui vivevano.

giovedì 7 febbraio 2019

Rodolfo Fogwill

I soldati argentini nascosti in un dedalo di tunnel nella primavera del 1982 sono ossessionati dall’Harrier, un aereo inglese in apparenza minuscolo, goffo e bizzarro. Arriva direttamente dal mare come una tempesta, agilissimo, veloce e sfoggiando una panoplia di armi di ogni tipo: mitragliatrici, bombe a guida laser, razzi, missili. All’improvviso diventa enorme, schiacciante, sopra la testa, come a ricordare che “sono loro a decidere le proporzioni”, e anche la prospettiva visto che l’Harrier vola usando sia gli assi verticali che quelli orizzali, mentre gli armadilli, così come si sono ridenominati i coscritti della junta di Leopoldo Galtieri, sono al tempo stesso fuggiaschi e prigionieri in una buca fetida, come se fossero già nella tomba. Il paradosso è l’elemento vitale e trascinante di Scene da una battaglia sotterranea: Rodolfo Fogwill ha creato una guerra immaginaria che appare più consistente di quella reale, o almeno da come è descritta dai mezzi di informazione e dalle analisi storiche. Mentre la radio argentina annuncia ad libitum la vittoria, la fine si avvicina e gli armadilli non hanno scampo e attirano una gamma insostenibile di conflitti. Sono giovani, provinciali, impauriti addestrati poco e male visto che “combattere, combattere, in realtà non sapeva farlo nessuno. L’esercito recluta dei buoni soldati, gli insegna più o meno a sparare, correre, a tenere il ordine l’equipaggiamento, e con un po’ di fortuna gli insegna a piantare bene la baionetta, poi però arriva la guerra e scopri che si combatte di notte, con le radio, i radar, i miri a infrarossi, al buio, e che l’unica cosa che sai fare bene, ovvero correre, non la puoi mettere in pratica perché dietro di te, ma mano che avanzi, quelli del tuo reggimento hanno piazzato delle mine. E le mine sono il peggio del peggio”. Gli ordini, quando ci sono, restano incomprensibili perché i superiori sono distanti, ambigui, riluttanti, attitudini che si riflettono in “quel modo lì di parlare. Uno diventa ufficiale e cambia modo di parlare. Cambiano alcune parole: vogliono dire la stessa cosa, hanno lo stesso significato, ma sembrano qualcosa di più, come se chi le dice pensasse di più o fosse di più”. La catena del comando è una delle insidie più temibili, insieme al freddo, alla fame, al buio, alla diarrea (un incubo), alle ferite (“Feriti è come essere morti”) e alla solitudine perché anche se sono schiacciati giorno e notte uno contro l’altro, gli armadilli sono abbandonati e isolati tra lunghe ondate di noia e sprazzi di puro e semplice terrore. L’Harrier non è l’unico assillo che si muove lungo gli assi x e y: “chi aveva visto gli elicotteri, scendere, non passare, non voleva più tornare al freddo perché gli elicotteri, il fracasso, l’odore e gli uomini degli elicotteri, spaventavano più degli Harrier solitari, anche se ammazzavano meno gente. Ma nelle ultime settimane, quando ormai si vedeva arrivare la fine, era normale incrociare stormi di elicotteri che calavano uomini, e non c’era rimedio”. L’arrivo del nemico è spaventoso, ancora prima che comincino i combattimenti: sfoggia una forma fisica invidiabile, è più pagato, più efficiente, più motivato e, in definitiva, più professionale. Gli armadilli sono ammirati e disorientati in parti eguali e, da quella dimostrazione di guerra come “metodo”, colgono l’ennesima opportunità per salvarsi, a dispetto della retorica della patria, del dovere e dell’onore, andato consumandosi in una marea di merda. Scene da una battaglia sotterranea è un romanzo grezzo, immediato e istintivo che risponde alla determinazione, ribadita da Rodolfo Fogwill in ogni nuova edizione: “Non ho scritto un libro sulla guerra, ma su me stesso e sulla lingua di uno che non scriverà mai contro la guerra, contro la pioggia, contro i terremoti né i temporali, ma scriverà sempre contro i modi sbagliati di chiamare il nostro destino e di conviverci”. Un piccolo capolavoro.

martedì 5 febbraio 2019

Gregory David Roberts

Quando arriva a Bombay, Gregory David Roberts non ha più nemmeno il suo nome. Alle spalle ha una condanna per rapina, in Australia, e un’evasione. Non può tornare indietro, non si può mai tornare indietro. Ma quando arriva a Bombay non ha sciolto ancora il nodo che lo lega al suo passato: “La mia cultura mi aveva insegnato bene le cose sbagliate” dice nel corso di Shantaram e lui tutte quelle “cose sbagliate” comincia a metterle in funzione anche in India dove traffica con la mafia e altre forme di delinquenza. Le discese negli inferi non bastano mai e il passaggio per finire a combattere in Afghanistan, all’epoca dell'invasione e dell’occupazione sovietica, è un semplice flashback della memoria. Uno dei tanti perché Shantaram raccoglie a piene mani dalla tormentata autobiografia di Gregory David Roberts per trasformarsi in un voluminoso romanzo in cui s’incrociano e si amalgamano la tradizione dell’avventura, un’appariscente vocazione per la filosofia e, inevitabilmente, l’articolatissimo e variopinto mondo della cultura e della vita quotidiana in India. Una miscela plasmata nel tentativo concentrare in Shantaram l’esperienza dell’esilio. Victor Hugo (uno dei modelli di riferimento di Gregory David Roberts, insieme a Flaubert, Stendhal, Melville, Joyce, Henry James e Joseph Conrad) diceva: “Non sai cosa ti aspetta, esule. Sei fuggito, ma non ti sei liberato”. È proprio la condizione vissuta da Gregory David Roberts, però un centinaio di anni più avanti rispetto alle sue letture: “Per un artista, il ventesimo secolo è un’opportunità di confronto infinita e la caratteristica che più mi ha affascinato è l’alienazione. È stato un secolo in cui la gente si è alienata dalle precedenti idee sulla vita. Alienati dalla vita, dalla religione, dai legami che poi hanno cominciato a viaggiare per il mondo. Possiamo chiamarla diaspora, possiamo chiamarla migrazione, possiamo chiamarlo esodo: in realtà è sempre stato un esilio”. Gregory David Roberts scrive con il cuore in mano, senza cercare particolari effetti linguistici o raffinate soluzioni letterarie: in un certo senso si percepisce pagina dopo pagina che la sua storia preme per uscire. Tra un’enorme varietà di personaggi, spesso in lotta tra loro in guerre più o meno dichiarate, Gregory David Roberts o meglio Lin, come viene chiamato a Bombay, finisce per essere il bersaglio preferito di una vendetta, di un risentimento, di qualche affare andato male e gli capita di trovarsi più di una volta in celle infestate da insetti famelici piuttosto che da carcerieri cinici e crudeli. Se riesce a salvarsi è perché non dimentica mai che “un uomo sano di mente è soltanto uno che sa mentire meglio di un pazzo”. In tutto questo la sua ricerca di una luce è incessante perché, come scrive in uno dei passaggi nascosti tra le mille pagine di Shantaram, “uno dei motivi per cui abbiamo un terribile bisogno d’amore e lo cerchiamo disperatamente, è perché l’amore è l’unica cura per la solitudine, la vergogna e la sofferenza. Ma alcuni sentimenti si nascondono così profondamente nel cuore che solo la solitudine può aiutarti a ritrovarli. Alcune verità sono così dolorose che solo la vergogna può aiutarti a sopportarle. E alcune circostanze sono così tristi che solo la tua anima può riuscire a urlare di dolore”. Shantaram è un feuilleton nel senso più nobile del termine: ricco di colpi scena, movimentatissimo dall’inizio alla fine, scorre come un film già scritto.